sabato 26 gennaio 2008

PRESENTAZIONE DEL LIBRO LU "NANNI ORCU, PAPA CAJAZZU E ALTRI CUNTI SALENTINI"

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Copertina di Maria Berto


Locandina invito per la presentazione del libro


Articolo apparso sul Nuovo Corriere Viterbese




Palazzo Montalto-Belei, via di Corte 8.
Presentazione di
“Lu Nanni Orcu, papa Cajazzu e altri cunti salentini


PERCHÉ HO SCRITTO QUESTO LIBRO

Ho voluto essere il custode di una tradizione orale, quella della mia famiglia e di Collemeto, il mio paese, una tradizione che mi è stata trasmessa fin dall’infanzia. La mia è l’ultima generazione alla quale è stata trasmessa la tradizione orale. Quando ero bambino, non c’erano libri, non si vedevano i libri. Il primo libro l’ho visto a sei anni, quello di lettura in prima elementare. Ma non rimpiango l’assenza di libri in quel periodo, per i libri ci sarebbe stato tempo: adesso sono sommerso dai libri. Ma a quel tempo la mancanza di libri era sostituita da un continuo raccontare. Non c’era la televisione, pochi avevano una radio e perciò il tempo dello svago era quello del raccontare fatti e storie che venivano dalla notte dei tempi. Si raccontava d’inverno vicino al caminetto o intorno a un braciere acceso; si raccontava d’estate quando la sera, finito il lavoro, la gente si raccoglieva intorno alla soglia di casa a respirare l’aria più fresca e si dava inizio a racconti, storie, fatti che potevano essere tragici, come le vicende della guerra che i nostri padri avevano vissuto, ma anche storie e fatti per ridere, a volte inventati a volte veri. Spesso era proprio la miseria o le storie dell’emigrazione che davano spunto a fatti comici. Al mio paese, quando vedi per strada, o presso un bar, 3-4 persone a chiacchierare, c’è sicuramente tra loro uno che racconta e che sta facendo ridere.
Proprio d’estate, ogni anno, mio nonno materno Pasqualino, si assentava 15 giorni per recarsi a Rimini dove viveva il figlio Luigi colà rimasto alla fine della guerra. Sicché la nonna, che abitava a pochi passi da noi, chiedeva a mia madre un nipotino che le facesse compagnia la notte. Toccava a me che ero il più grandicello dei fratelli e non vedevo l’ora di coricarmi con la nonna perché lei, prima di addormentarmi, si trasformava in una intera compagnia di teatro. Delle volte, per drammatizzare meglio i suoi racconti, si levava in piedi sul letto e gridava e gesticolava a più non posso. Io ero lì come incantato, spettatore ignaro di eventi irripetibili, catapultato in storie che prendevano corpo nei suoi cicì-cicì dei tanti passeri, nei suoi bum-bum del Nanni Orcu. E poi lei, che era così religiosa, a dirmi di preti e frati adusi a insidiare le virtù delle donne pie e non solo.
Ma altre occasioni erano date a noi fratelli per ascoltare i racconti della nonna. Mia madre, con 4 figli nati nell’arco di 5 anni, aveva un bel daffare e così, per avere un po’ di quiete, non mancava giorno in cui non ordinasse a qualcuno di noi di recarsi dalla nonna per farsi dare lu ntartieni. Questo intartieni per noi era un oggetto misterioso, ma l’ordine non si discuteva e si correva dalla nonna per farsi dare lu ntartieni (In seguito avremmo capito che intartieni (trattieni) era una parola magica che serviva per farci trattenere dalla nonna per qualche ora o più e così la mamma poteva riposarsi un po’).
Giunti dalla nonna: “Nonna, ha tittu la mamma cu mme tai lu ntartieni


Ah si? Vieni quai ca te cuntu nu fattu” si affrettava a rispondere la nonna.
E così la nonna si metteva a raccontare: ecco il suo trucco per trattenerci. Ma poi bisognava far ritorno a casa prima o poi, e si tornava alla carica:
Ma, nonna, la mamma ha tittu cu mme tai lu ntartieni!”
Beh, tinne alla mamma ca nu’ llu trou lu ntartieni”. E questo ntartieni continuava a restare per noi bambini un oggetto misterioso.
Ma c’è stato, oltre all’infanzia, un altro periodo, in cui quest’arte del raccontare è tornata con prepotenza. Si tratta dei dieci anni vissuti qui a Civita Castellana per la coltivazione del tabacco. Ore ed ore, dall’alba al tramonto, d’estate, a raccogliere e infilzare tabacco. Le mani, ormai addestrate, svolgevano meccanicamente il loro lavoro, potevi raccogliere dalla pianta un mazzo di tabacco in perfetto ordine senza neanche guardarla la pianta. Questo faceva sì che potevi nel frattempo pensare, parlare, cantare. E che cosa si poteva fare per allontanare la fatica e il tedio della monotonia? Raccontare ovviamente.
Non solo i nonni, ma anche i miei genitori sono stati una miniera di fatti e di storie. E si cantava pure ovviamente, lì curvi, all’alba, quando il ticchettio delle foglie spezzate diventava la colonna sonora delle nostre voci.
Sicché, se ho potuto ricordare i racconti che ho scritto, come il resto delle tradizioni orali, lo devo al fatto che gli stessi li ho ascoltati non una volta, ma tante volte. Che poi eravamo noi stessi a chiedere a papà e mamma di raccontarci questo o quel fatto che magari già conoscevamo, ma ci piaceva risentirlo per gustare i modi, i toni, i ritmi del raccontare.
Ma c’è stato un momento nella mia vita in cui ho capito che tutti quei racconti salentini di cui ero depositario avrei dovuto scriverli e non tenerli solo per me. Correva l’anno 1979, era estate e, invece che starmene al mare, ero al Gemelli a Roma con una diagnosi infausta. I miei amici venivano a trovarmi, e, talvolta erano così tanti che ci si doveva spostare tutti nella sala ritrovo. E così, non so come, forse per via di qualche imbarazzante silenzio, prendevo io la parola. Ma non parlavo in italiano, in dialetto salentino invece, perché sapevo che i miei amici si divertivano sempre quando tiravo fuori espressioni e detti del mio paese accompagnati da grandi gesti e una curiosa mimica facciale. E tiravo fuori proprio i racconti di mia nonna e i miei amici ridevano e ridevano. Nel frattempo io non avvertivo più il tanfo di alcol, non vedevo più le pareti scrostate, non vedevo i dottori, gli infermieri, né c’erano più diagnosi infauste. La vita riprendeva il sopravvento in barba a tutto e, questo era un dono della parola.
Anni più tardi, capitò che dovetti tornare al paese perché mio padre non stava bene per niente. Si usa, da noi, far visita agli ammalati, un dovere quasi. Sicché la gente entrava a frotte in casa mia per mio padre che stava a letto. Non ci crederete: un pomeriggio la stanza era gremita, io dovevo cercare sedie per tutti. Avvenne una specie di miracolo: mio padre, di fronte a tutta quella gente, si risistemò sul letto col nostro aiuto e diede inizio a raccontare. Ricordo ancora, raccontava il fatto di “Don Tonino”, racconto che si trova nel libro.
Bene, tutti a scompisciarsi dalle risate e se ne tornavano a casa con il dubbio se avessero fatto visita a un morente oppure avessero assistito a uno spettacolo comico.
Chissà, forse si era avvicinata sorella Morte e, divertita anch’essa dall’insolita scena, aveva preferito rimandare: sarà per un’altra volta! Anche qui il miracolo della parola.
E mia madre? Anche lei, verso la fine, nelle pause dal dolore, per me che le stavo vicino tutto il giorno, si metteva a raccontare e io cercavo di imprimermi i suoi ultimi toni di voce, le sue sfumature, i suoi gesti, le sue smorfie facciali. Anche per lei, ancora una volta, la parola la riportava in vita, magari era un’illusione, ma che importava: nel frattempo, anche qui, sorella Morte, preferiva prendere il largo: sarà per un’altra volta!
Ecco, mi sono chiesto a volte che cosa ho ereditato da miei. E mi sono risposto che la cosa più bella che ho ereditato è stata la parola, la parola che si fa vita e rimanda sorella Morte sempre a data da destinarsi. Finché potrò raccontare, finché potrò riempire un foglio di parole, sorella Morte potrà attendere. E, vi assicuro, nessun conto in banca può sostituire questa eredità.
Ma tutto questo che vi sto raccontando, non vi fa pensare a Sharāzād delle Mille e una notte? Vi si narra del re persiano Shāhrīyār, che, essendo stato tradito da una delle sue mogli, ha deciso di uccidere per vendetta le sue spose al termine della prima notte di nozze. Ma la bella Sharāzād, andata in sposa al re, escogita un trucco per salvarsi: ogni sera racconta al re una storia, rimandando il finale al giorno dopo. Va avanti così per mille e una notte; e alla fine il re, ormai innamorato di Sharāzād, le rende salva la vita.
Questo per dirvi che non sono stato io a inventare questa cosa della parola che salva la vita.
Verbum caro factum est, la parola si è fatta carne. Mai detto evangelico fu più vero. Non esiste per me fascino più grande della parola. Posso scrivere, posso bearmi con una pittura, un paesaggio, un film, una sonata di Chopin, per ricondurre poi tutto alla parola. La parola da sola è musica, è poesia. La parola non ha bisogno di supporti per essere bella. Ci sono canzoni che preferisco, proprio così, cantare senza chitarra. Lo strumento ti obbliga in qualche modo a una misura già definita, mentre l’animo ha bisogno di librarsi all’infinito senza catene, come avveniva nel canto gregoriano.
Tutto questo sento di non averlo appreso soltanto a scuola, sono convinto di averlo anche ereditato. E quando a scuola è arrivato il mio primo libro di lettura, ho scoperto che era fatto di parole, parole da declamare ad alta voce, per dare anima e corpo a pagine e a segni di per sé morti. Forse è per questo che amo così tanto il libro, questo scrigno che basta scardinare per imbattersi in parole che viaggiano per mari e mondi sconosciuti, parole che concertano suoni e visioni che preludono all’unico paradiso che possiamo sognare su questa bellissima terra.
Alfredo Romano
Civita Castellana, 13 dicembre 2008



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