domenica 9 dicembre 2007

TRADIZIONI POPOLARI E STORIE DI VITA NEL SALENTO / testimonianze

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Nardò, Besa editrice, 2005
Disegno di copertina di Maria Berto
Lettera manoscritta di Giorgio Mario Bergamo, scrittore di Mestre (Venezia).
Ha pubblicato con Einaudi, Cappelli e Mursia
24 gennaio 2008


Caro Alfredo,
[...] anche il volume sulle tradizioni e storie salentine mi sembra ottimo, equilibrato, gustoso, capace di proiettare il lettore in una full immersion fin nei meandri di quelle vite di provincia profonda che tu [...] rappresenti dal vero. Tutto il nostro...
Giorgio Mario Bergamo
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Luigi Cimarra, studioso tradizioni popolari, linguista, scrittore
IL SALENTO DELLA MEMORIA
Qualche volta torna utile portare avanti la lettura di due libri in contemporanea, anche se tra di essi all'inizio si presume che non vi sia nessun legame, nessun punto di contatto. Ci si accorge poi che è la mente a determinare sintesi, a trovare valenze improvvise ed imprevisti riscontri. Così mi è capitato in questi giorni di avere tra le mani il volume del mio amico bibliotecario (dovrei aggiungere molte altre qualità... ma mi limito all'omerico 'multiforme ingegno') Alfredo Romano, cioè 'Tradizioni popolari e storie dì vita nel Salento' e il lavoro di Filippo Faloppa, un linguista impegnato, oserei dire d'avanguardia 'Parola contro. La rappresentazione del diverso nella lingua italiana e nei dialetti'. Libri entrambi recenti, il primo profuma ancora di inchiostro. Devo confessare che a divorare in due nottate il libro di Alfredo mi ha spinto anche la generosa dedica, di cui egli mi ha voluto far omaggio, che io naturalmente non merito, ma che ho gradito. A sua volta il lavoro del giovane linguista affronta una tematica attualissima. Egli senza mezzi termini afferma: "Le parole possono uccidere. Ce ne rendiamo conto ogni giorno di più, mentre vocaboli come 'nazione', 'patria', 'popolo', 'etnia', talebano' o 'negro' vengono usati come armi per difendere la nostra identità vera o presunta, per aggredire l'altro, per umiliare il 'diverso', quello che si ritiene ostile, impuro, indegno. Spesso l'amico e il nemico vengono creati artificialmente, anche attraverso l'uso di termini che includono o escludono, accolgono o allontanano". Mi si obietterà (ed anch'io me lo sono chiesto): che ci accatta il Salento con il 'talebano'? Il Salento di certo nulla, perché rievoca mari incontaminati, colori primitivi e vividi della terra, suoni arcaici ed arcani, voci d'oltremare, aromi densi che inebriano l'anima. Ma basta sostituire la parola e dire 'leccese'... perché tutto si rimescoli in colori duri e tetri: "leccesi magnabracchetti", "leccesi-tutti appesi", leccese = terrone, leccese = 'inciviltà, ignoranza, barbarie... '. Ma che lo si voglia o no, Civita è diventata un lembo del Salento, Civita è stata la terra promessa per centinaia di diseredati... per i coltivatori di perustiza... per i guastasi (parola antica, di ellenica musicalità, se si fa derivare dal greco bastàzo). Oggi, ad integrazione avvenuta, quasi non ce ne ricordiamo più, ed è un bene... A ricordare l'origine rimangono solo i cognomi, un'etichetta convenzionale, ma la nuova linfa ha rigenerato la 'stirpe' falisca, l'ha ritemprata, come in precedenza avevano fatto i laboriosi e tenaci marchigiani. Nella biblioteca comunale campeggia oggi una sezione salentina, ricca di memorie e di immagini, nella quale le culture messapica, greca, romana, normanna, albanese si fondono ed attingono ad una sintesi originale ed irrepetibile. Ma i leccesi (per carità, con la elle minuscola!) non erano un popolo senza cultura? Non erano i 'diversi'? I senza nome e senza storia? Alfredo, in un volume compatto, metodologicamente irreprensibile, editorialmente accattivante, ci offre uno spaccato particolare del Salento, cioè della sua terra, delle sue radici più intime e vere. Ci presenta con la mente e con il cuore, come fa quando esegue le Pizziche tarantate, il mistero di una tradizione. Egli ripropone la sua cultura, che la memoria si rifiuta di obliterare, perché è fatta di sentimenti e di affetti, di fatica e di sudore, di volti familiari e di mani nodose, di sorrisi e di pianti, di fantasia e di passionalità, di sacralità e di magia, di fede e di corposa materialità, di nascita e di morte, di amore e d'odio, in una parola di un'esistenza, che per lui e in lui rivive in volti umani, nella quotidianità, nell'emigrazione forzata. Una cultura che si innerva nella sua famiglia, nei suoi amici, nella sua piccola comunità, una cultura partecipata e condivisa. Canti, orazioni, proverbi, scioglilingua, indovinelli, modi di dire, etnotesti, favole e racconti, improperi, in pratica tutto un mondo appare davanti a noi e si disvela nella parola e nei suoni. Il folklorista vi trova conferme per le sue ricerche: anche nel meridione si rinvengono testimonianze del canto epico-lirico; la versione del canto della Passione (Le ventiquattro ore) connette la Puglia con una tradizione diffusa in molte regioni d'Italia fino all'Istria; le tritici parole te la verità appartengono ad un orizzonte culturale che interessa tutte e tre le religioni monoteiste. Ma il libro non si rivolge agli specialisti, è stato concepito e realizzato come un libro per tutti, a partire dalla copertina, illustrata dall'estro creativo della professoressa Maria Berto. Non vi si trovano apparati eruditi, pesanti commenti di carattere filologico, glossari, indici analitici, ma la fruibilità è pienamente garantita da chiare note illustrative, da una traduzione elegante ed insieme semplice dei testi, da commenti pieni di verve, di ironia sapida e misurata. Si sa... ogni libro è un segreto che si rivela. In questo caso Alfredo Romano con il suo Salento ci ha rivelato la profondità della sua anima.
[Recensione apparsa sulla “Gazzetta Falisca”, periodico mensile di Civita Castellana, nel novembre 2005].



PREMESSA di Massimo Marzi, amico pianista, che ha curato la trascrizione musicale dei brani delle canzoni popolari salentine.

"L'affetto più che fraterno e la grande stima per Alfredo Romano mi hanno spinto ad accettare subito la sua proposta di dare una partitura ai canti popolari raccolti in questo volume.
Pensavo inoltre che, pur essendo musicista nel campo della musica colta senza specifiche esperienze nel campo della musica popolare o in etnomusicologia, non avrei incontrato particolari difficoltà nella trascrizione. Mi sbagliavo!
Il materiale su cui lavorare era racchiuso in registrazioni amatoriali dove Alfredo (grande incantatore nel recitare e cantare, travolgente quando col suo tamburello scatena il ritmo irrefrenabile e ipnotico della pizzica tarantata), oltre alle proprie interpretazioni, aveva raccolto le voci di anziani e rappresentativi cantori salentini. Per la maggior parte si trattava di voci sole senza accompagnamento strumentale. Alcuni di questi canti vengono da lontano nel tempo, altri sono la reinterpretazione popolare di un repertorio storico a noi più vicino.
La libertà esecutiva di queste interpretazioni mi ha posto subito dei problemi. Ho avuto in un primo momento la tentazione di "correggere", di "quadrare", ma, così facendo, molto del fascino di quelle esecuzioni sarebbe andato perduto. Fermare sulla carta il senso dell'improvvisazione, l'arguzia, il sentimento di queste manifestazioni dell'anima popolare, di cui Alfredo e gli altri cantori sono l'incarnazione, mi è apparso improvvisamente difficilissimo e forse impossibile. Ho cercato, allora, evitando formule preconcette, di rispettare e rispecchiare il più possibile nella scrittura l'umore e il ritmo delle singole esecuzioni con le caratterizzanti simmetrie e asimmetrie, sia negli accenti delle parole che nel rapporto tra le frasi[1].* Per lo stesso motivo ho scelto di non trascrivere tutti i canti in una tonalità unica, forse di più facile lettura e comparazione, ma di renderli così come venivano cantati.
Alfredo vive da tempo fuori dal suo Salento e a me sembra che veda le cose del mondo con gli occhi di chi ha vissuto più di una vita.
In questo, come in altri suoi bellissimi libri dedicati alla sua terra, c'è l'appassionato bisogno di testimoniare qualcosa della ricchezza che ha ricevuto dalla sua gente, di salvare qualche lembo di questo prezioso tessuto filato da generazioni che va inesorabilmente perdendosi.
Gli sono grato per l'invito a questa piccola collaborazione (spero di essere riuscito a fornire almeno una traccia alla fantasia e alla immaginazione del lettore).
Essergli stato vicino nella genesi di questo suo lavoro, mi ha fatto apprezzare ancor più lo spirito, l'ironia, la sottile sofferenza e la bellezza che vivono nel suo ricordare."
 
Roma, maggio 2005

**+****+ *Esempio: Pe' ttie menu li passi, con la prima frase che chiude in modo piano: le sillabe stendu con sten sul battere della misura, e la seconda frase in modo tronco in cui è il du finale di caminandu che cade in battere sulla misura. La terza e la quarta frase poi si comporteranno reciprocamente nello stesso modo. Anche qui sarebbe stato facile portare anche la seconda e quarta frase a terminare in modo piano, ma è proprio questa ineguaglianza a rendere più vivo e interessante il tutto!

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SABATO 3 DICEMBRE ORE 20. SALONE DELL’ORATORIO DI COLLEMETO.
PRESENTAZIONE DEL VOLUME “TRADIZIONI POPOLARI E STORIE DI VITA NEL SALENTO”
[Traccia del discorso]
Stasera sono felice e commosso di stare qui con voi. Sono venuto apposta da lontano per incontrarvi. Sono andato via tanti anni fa come tanti figli di questa terra e torno ogni estate. Quando arrivo qui e vedo i vostri volti, le case e le strade dove scorrazzavo da bambino, quando arrivo qui e sento parlare la stessa lingua che ho imparato dai miei genitori, ho sempre l’impressione di non essere mai andato via. E Civita Castellana, dove abito da 40 anni, è così lontana… lontana. Questo paese è la mia acqua, è il mio respiro, è il mio sentire, è tutto ciò che ho nel profondo, nella mia anima, nel mio cuore.
Ma ogni mancanza, si sa, ha bisogno di essere riempita. E io, negli anni, ho sempre raccolto e messo da parte tutti i modi e le espressioni della nostra tradizione popolare: li cunti, le poesie, le canzoni, gli stornelli, i proverbi, gli indovinelli, i modi di dire, anche le parolacce, specie quelle di mio padre, che erano così colorite.
Vi chiedete perché questo interesse. E’ che quando vivi in un posto in cui non si parla la tua lingua, ecco che ti viene a mancare, ne fai un mito, la rincorri per tutta la vita. Io ormai ho l’abitudine di parlare in italiano, ma non vi nascondo che, quando mi trovo in situazioni in cui devo esprimere gioia, amore, dolore, rabbia, meraviglia, sorpresa, per non dire qualche imprecazione, spontaneamente mi viene di esprimermi in dialetto. Ad esempio, quando inciampo, mi viene spontaneo esclamare “lampu e tronu!!!”. Un’espressione corrispondente in italiano non esiste.
La mia infanzia. Mi piace a volte arrivare di notte a Collemeto, o, d’estate, allo schiaccu (pomeriggio assolato, n.d.a.), quando le strade sono deserte. Improvvisamente mi si apre davanti lo scenario di tanti anni fa, quando a Collemeto eravamo tanti bambini, e vivevamo e giocavamo in mezzo alla strada, e gruppi di gente sostavano fuori, davanti casa, a raccontare storie, a cantare, a suonare. Era un altro mondo, non c‘erano auto, non c’era la televisione. Le
strade non erano asfaltate, sicché, alle nove di sera, quando la corriera che da Lecce tornava a Gallipoli attraversava tutta via Padova (non era asfaltata allora) e sollevava nuvole di polvere, noi bambini, indispettiti, la prendevamo di mira con i nostri sassi.
Era un mondo magico, incantato, che oggi non esiste più e sono contento di far parte di una generazione che l’ha conosciuto quel mondo, perché poi, con l’arrivo del cosiddetto benessere, delle fin troppe auto e della televisione che costringe la gente a starsene chiusa in casa, ognuno per conto suo, quel mondo è scomparso. Certo era un mondo in cui la fame e le malattie non scherzavano, ma c’erano in ogni caso dei valori che erano fondanti per una comunità, valori in cui tutti si riconoscevano: parlo dell’educazione, del rispetto, della solidarietà, del vergognarsi quando venivi sorpreso a commettere una marachella.
Il libro che oggi viene presentato, come quello dei racconti di alcuni anni fa, ecco, vuole essere un tentativo di fermare quel mondo di un tempo in cui c’erano le fate, li nanni orchi, le anime ca te caranfavanu, il buio che faceva paura.
Faccio parte dell’ultima generazione alla quale sono state trasmesse le tradizioni orali, per cui ho sentito il dovere e, insieme il piacere, di scrivere tutto quello che ho appreso dai miei nonni, dai miei genitori, parenti, vicini di casa. E poi, quando si raccoglieva e infilava tabacco per tante ore al giorno, come si poteva ovviare alla fatica e alla noia, se non raccontando e cantando? Sono libri che ho scritto per il gusto di scrivere, certo, ma anche per il mio paese, perché non si dimentichi la bellezza della nostra lingua e delle nostre radici. Non perché il nostro dialetto sia migliore o più bello di altri: tutti i dialetti sono una ricchezza, ma è il nostro, è la nostra identità, la nostra cultura e dobbiamo salvaguardarlo, fare in modo che lo parlino anche i bambini insieme all’italiano. Ci sono parole e modi di dire nella nostra lingua che sono la nostra gioia di esprimerci in suoni e ritmi che sono unici e che nessun progresso ci deve togliere.
Voglio anche dirvi che, se non fossi emigrato, forse non avrei sentito il bisogno di testimoniare, scrivendolo, tutto ciò che mi è stato trasmesso oralmente. Sicuramente sono stato indotto dalla consapevolezza di aver ereditato un patrimonio di inestimabile valore che era parte della mia identità. Sono legato a quel patrimonio come fossi legato a un tesoro nascosto. Ecco, scrivendo il mio libro, è come se avessi disseppellito il mio tesoro per farne partecipi tutti, soprattutto voi di Collemeto, perché possiate ritrovarvi nella ricchezza e nella bellezza della nostra lingua.
Ogni dialetto ha la sua suggestione nei ritmi, nei toni di voce, nei suoni che evoca, come nei gesti che l’accompagnano. Sono convinto che la lingua è lo specchio di una civiltà: ne contiene la storia, la cultura, il pensiero, l’anima insomma.
Il progresso tecnologico sta omologando tutto, anche la lingua. La televisione ci propina ogni giorno lo stesso linguaggio, bello o brutto che sia. Nell’era del consumismo il dialetto non serve perché è un linguaggio di pochi e non è un buon veicolo pubblicitario: non arriva a tutti, non fa vendere. Il dialetto allora, a meno di una rinascita al di fuori dei valori commerciali, è destinato a scomparire e con esso scomparirebbe anche un mondo, una civiltà.
Certo non tutto era bello del nostro passato: c’era poco pane, c’era il “bongiorno a signurìa”, la scuola per pochi eletti, il lavoro non bastava per tutti, l’emigrazione è stata un male necessario…
Non tutto era bello del nostro passato, ma il progresso ha spazzato via anche le cose belle di una volta: parlo di un certo modo di stare insieme, di un sentimento di solidarietà che c’era tra gli esseri umani. Benché poveri, si era più generosi, ci si spartiva l’ultimo tozzo di pane. Non c’era solitudine poi, il paese era una grande famiglia e soprattutto non si moriva da soli.
Il dialetto (ancora), ha parole, espressioni, modi di dire che alle mie orecchie suonano come musica. Ma il dialetto non è solo musica, è anche teatro. Ci sono personaggi qui a Collemeto, che quando parlano e raccontano storie, sono talmente ricchi di gesti e di espressioni, che pare stiano sul palcoscenico, sembrano altrettanti Totò, tale è la loro carica comica.
Dico della comicità. E del tragico? Niente più del dialetto esprime il senso del dolore, dello sconforto, della perdita. Non ci sono mezze misure, l’amore e l’odio sono sempre vissuti e detti con toni forti: grida e parole rotolano come pietre.
Ecco io con questo libro ho speranza di farvi fare un viaggio nelle nostre radici: insieme sulla barca della musica e delle parole. E che questo, oltre a suscitarvi un po’ di sana nostalgia per un mondo che scompare, possa anche farvi divertire un po’.
Grazie per essere stati qui con me.
Alfredo Romano
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PRESENTAZIONE “TRADIZIONI POPOLARI SALENTINE E STORIE DI VITA NEL SALENTO”CIVITA CASTELLANA PALAZZO MONTALTO-BELEI 18 NOVEMBRE 2005
[traccia discorso]
Ho avuto la sorte di nascere in un piccolo paese, Collemeto, una frazione di Galatina, dove non c’era ancora la luce elettrica, un piccolo paradiso terrestre ancora intatto fatto di notti scure, di candele e lampade a petrolio, di giorni chiari e luminosi nella calura implacabile del sole mediterraneo. Ho fatto in tempo a immagazzinare nella mia mente fiumi di nanni orchi, sciacuddhi e acchiature, anime in pena e morti ca te carànfanu, pìzziche e tarantate, ritmi e tamburieddhi, storie tragiche e comiche, zaccarresta e scundarieddhi, truddhi e cavaddhu barone, scisciarìculi e scarabòmbuli, rape creste e zzanguni, fae nette e gnumarieddhi… e lu vinu ca te trase intra ll’osse. Tutto un mondo magico e incantato che mi chiedo a volte se sia veramente esistito. Sono partito che ero un ragazzo e navigo da allora in mille perigli per tornare al paese, la mia Itaca che non c’è più.
Non sono un vero ricercatore sul campo, e se mi è capitato nel corso degli anni di effettuare delle registrazioni, l'unico motivo è stato quello di catturare suoni e parole da portarmi a Civita Castellana, come si fa, da buon emigrante, con l'olio, il pane, le frise, il vino, l'origano, la ricotta schianta, li pampasciuni, le cozze moniceddhe eccetera eccetera. La maggior parte del repertorio folclorico contenuto nel libro è tutto ciò che ho sentito e appuntato negli anni, soprattutto in casa mia. Sicché mia madre Lucia è l’informatrice principale. Lei stessa, sapendomi curioso te li 'ntichi, cioè “antichi”, per dire di fatti e storie del passato, annotava su pezzi di carta, fosse anche quella del macellaio, i suoi proverbi, gli stornelli, le canzoni, le poesie religiose e non, i modi di dire, ecc.
Mio padre Giovannino, invece, non mi annotava niente. Non ce n’era bisogno, però, perché il suo linguaggio era sempre così forte e colorito che certe sue espressioni o modi di dire o imprecazioni, mi sono rimasti dentro e fanno parte ormai del mio bagaglio espressivo. Seguono i miei nonni materni che in testa conservavano libri interi di tradizioni orali.
Qui a Civita Castellana, dove la mia famiglia emigrò negli anni ‘60 per la coltivazione del tabacco, abitavamo in uno dei tanti caseggiati, in località Terrano, che dividevamo con altre famiglie di Collemeto. Si era un po’ tutti parenti, si raccoglieva e si infilzava tabacco insieme nei grandi capannoni. Alle quattro del mattino si era già sul campo, alle 10 si cominciava a infilzare fino alle 18, quando si tornava alla seconda raccolta fino all’avanzare del buio. Sicché, ore e ore a raccogliere tabacco e a infilzare, con la schiena curva e il tedio di gesti ripetitivi, non potevano non stimolare il bisogno di raccontare, di cantare: così veniva fuori tutto il vasto patrimonio di storie, racconti, canti popolari dei miei genitori, ma anche fatti di paese, per non dire le storie dei dieci anni di guerra di mio padre, compresa quella d’Africa.
Voglio anche dirvi che, se non fossi emigrato, forse non avrei sentito il bisogno di testimoniare, scrivendolo, tutto ciò che mi è stato trasmesso oralmente. Sicuramente sono stato indotto dalla consapevolezza di aver ereditato un patrimonio di inestimabile valore culturale che era parte della mia identità. Sono legato a quel patrimonio come fossi legato a un tesoro nascosto. Ecco, scrivendo il mio libro, è come se avessi disseppellito il mio tesoro per farne partecipi tutti, sia quelli del mio paese perché non dimenticassero, sia i tanti salentini di Civita Castellana perché si ritrovassero nella ricchezza e nella bellezza della loro lingua, ma anche i civitonici, perché scoprissero di essere vissuti accanto e uomini e donne, i leccesi appunto, che conservavano, non solo nei tratti fisici e nei gesti, ma anche nell’anima, i segni di una cultura che veniva da lontano, una cultura che ha le sue radici in quella greca, e che le vicende della vita e dell’emigrazione non hanno cancellato.
Voglio spezzare una lancia in favore del mio dialetto, ma anche di tutti i dialetti in generale. Ogni dialetto ha la sua suggestione nei ritmi, nei toni di voce, nei suoni che evoca, come nei gesti che l’accompagnano. Sono convinto che la lingua è lo specchio di una civiltà: ne contiene la storia, la cultura, il pensiero, l’anima insomma.
Il progresso tecnologico sta omologando tutto, anche la lingua. La televisione ci propina a tutti lo stesso linguaggio, bello o brutto che sia. Nell’era del consumismo il dialetto non serve perché è un linguaggio di pochi e non è un buon veicolo pubblicitario: non arriva a tutti, non fa vendere. Il dialetto allora, a meno di una rinascita al di fuori dei valori commerciali, è destinato a scomparire e con esso scomparirebbe anche un mondo, una civiltà.
Certo non tutto era bello del nostro passato: c’era poco pane, c’era il “bongiorno a signurìa”, la scuola per pochi eletti, il lavoro non bastava per tutti. L’emigrazione è stata un male necessario.
Non tutto era bello del nostro passato... ma il progresso ha spazzato via anche le cose belle di una volta: parlo di un certo modo di stare insieme, di un sentimento di solidarietà che c’era tra gli esseri umani. Benché poveri, si era più generosi, ci si spartiva l’ultimo tozzo di pane. Non c’era solitudine poi, il paese era una grande famiglia e soprattutto non si moriva da soli. Oggi s’incontra magari l’inquilino del piano di sopra e non gli si rivolge neanche un saluto.
Il dialetto (ancora), ha parole, espressioni, modi di dire che alle mie orecchie suonano come musica. Ma il dialetto non è solo musica: è anche teatro. Quando torno al mio paese provo una certa emozione a risentire la lingua della mia infanzia: è quasi tornare nel ventre di mia madre se volete.
Ci sono personaggi che quando parlano e raccontano storie, sono talmente ricchi di gesti e di espressioni, che pare stiano sul palcoscenico, sono altrettanti Totò, tale è la loro carica comica.
Dico della comicità. E del tragico? Niente più del dialetto esprime il senso del dolore, dello sconforto, della perdita. Non ci sono mezze misure, l’amore e l’odio sono sempre vissuti e detti con toni forti: grida e parole rotolano come pietre.
Ecco io con questo libro ho speranza di farvi fare un viaggio nelle mie radici: insieme sulla barca della musica e delle parole. E che questo, oltre a suscitarvi un po’ di sana nostalgia per un mondo che scompare, possa anche farvi divertire un po’.
Alfredo Romano
Civita Castellana, 17 nov. 2005

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Questa è la traccia del discorso che mi ero preparato da tenere a Neviano, in prov. di Lecce, il 22 dicembre 2006 per la presentazione del mio “Tradizioni popolari e storie di vite nel Salento”. Purtroppo qualche giorno prima mi ammalai e tutto andò a monte. Tra l'altro, dopo la presentazione, avrei dovuto tenere anche un concerto di canti popolari.
"Voglio dirvi che è davvero un’emozione grande trovarmi qui a Neviano stasera. Sono nel paese di mia madre, che si chiamava Lucia Giustizieri (se n’è andata 12 anni fa); sono nel paese dei miei nonni Pasquale Giustizieri e Maria Neve De Blasi. I miei nonni, a loro volta, mi parlavano sempre dei loro genitori (i miei bisnonni quindi) e non ho dimenticato i loro nomi: e ve li cito, perché, almeno i cognomi, vi saranno familiari: Berardino Giustizieri, sposato a Sofia Pasqua, e Giovanni De Blasi, sposato ad Aurora Pinzi. Se mio nonno era nato nel 1887 e mia nonna nel 1889, devo credere che i mei bisnonni siano nati a metà dell’Ottocento.
Senza i miei nonni materni, la mia infanzia non sarebbe stata così magica (con quelli paterni non ho avuto contatti: la nonna morì prima che io nascessi, il nonno quando avevo 5 anni). La parola Neviano poi è risuonata sempre alle mie orecchie fin da bambino, per non dire che i nonni parlavano esclusivamente nel dialetto di Neviano, paese di cui se ne facevano sempre vanto, anche mia madre, visto che erano finiti a vivere in quel povero e piccolo paese, per giunta una frazione, che si chiamava Collemeto. Un vanto che delle volte mio padre non sopportava, tanto che, a mia madre che lo stuzzicava, spesso rispondeva per le rime con un: Statte citta tie ca si’ nnata su quiddhi cozzi te Nevianu! C’è da dire che mio nonno si gloriava spesso di un suo antenato che era stato il costruttore della chiesa della Madonna della Neve.
Ma com’erano finiti a Collemeto i miei nonni? Dovete sapere che mio nonno era un macellaio affermato qui a Neviano. Aveva casa e una macelleria in via Roma, di fronte a un’edicola della Madonna della Neve che non so se oggi c’è ancora.
Andava bene la macelleria, ma evidentemente a lui non bastava, dal momento che investì tutti i suoi risparmi in un carico di asini calabresi. Si recò personalmente in Calabria per trattare l'affare. Gli asini, però, stipati nei vagoni merci, forse perché non erano tutti dello stesso allevamento, presero a sferrarsi calci e a morsicarsi tra di loro. Alla stazione d'arrivo, aperti i vagoni, si presento uno spettacolo impressionante: quasi tutti gli asini erano morti dissanguati. Così l'affare andò a monte e mio nonno si ridusse sul lastrico. Ma aveva sette figli (altri quattro gli erano morti di spagnola durante la Prima Guerra) e non si perse d'animo. Si trasferì con la famiglia a Monteparano, nei pressi di Taranto, per coltivare tabacco. Ma anche qui le cose non andarono bene e cercò un posto più favorevole per la coltivazione. Finì a Collemeto: gli dissero che a Collemeto c'era terra buona e si rifugiò in una masseria in località Molinari.
Mia madre mi raccontava sempre che quando partirono da Neviano per Monteparano era il 13 dicembre del 1925, il giorno di santa Lucia, il suo onomastico. Frequentava la prima elementare, e dovette lasciare. Da quel giorno non andò più a scuola, tragedia che sarebbe ritornata spesso nel suo raccontarmi. Molto più tardi però, imparò a leggere e a scrivere da sola. Lo fece per amore, per rispondere alle lettere che mio padre gli mandava dal fronte di guerra a Ventimiglia.
I nonni, a Collemeto, abitavano a pochi metri da casa mia, sicché i miei contatti con loro erano giornalieri, tanto più che mia madre spesso mi mandava dalla nonna per farmi dare lu ntartieni, ntartieni che non mi dava mai naturalmente, visto che si prodigava a trastullarmi con le sue lunghe storie, filastrocche e racconti popolari che conosceva a iosa. Mio nonno, poi, si recava ogni anno per 15 giorni a Rimini, e io, il più grande di 4 fratellini, andavo gioiosamente a far compagnia a mia nonna che la sera mi addormentava con le sue storie accompagnandosi con gesti e toni di voce tali che avrebbero impressionato gli spettatori di un intero teatro.
Ma anche il nonno non era da meno, specie cu lli culacchi te Papa Cajazzu. Mio nonno però era solito raccontarci sempre una storia vera, una storia per ridere che una volta gli capitò proprio in via Roma dove aveva casa e macelleria. Diceva che di fronte a casa sua c’era un palazzo di signori. Voi sapete che la domenica c’era la messa prima per la gente comune e quella seconda, detta dei signori. Bene, mio nonno, era di domenica mattina un po’ sul tardi,, stava uscendo di casa, quando, sul balcone del palazzo davanti, un palazzo di signori, stava affacciata una certa donna Rosina. Questa, notando mio nonno uscire, lo chiamò:
“Pascalinu! Pascalinu!”
“C’è ggh’ete, donna Rusina!” pronto mio nonno.
“Sai gnenzi ci è bessuta la messa te le villane?” chiese donna Rosina.
“Sì!, e mo’ sta ccumincia quiddha te le bbuttane!”
I fatti narratimi dai miei nonni sono finiti in un libro edito sei anni fa dalla Besa editrice di Nardò, dal titolo Lu Nanni Orcu e altri racconti salentini. Il libro forse è esaurito, ma occorrerà ristamparne una nuova edizione almeno per voi di Neviano, perché si tratta di racconti che provengono quasi tutti dalla tradizione popolare di questo paese e che qui forse si sono perduti. Almeno personalmente non ho trovato traccia nelle pubblicazioni salentine di folclore.
Ma oggi parliamo di un altro libro, quello per il quale voi tutti siete venuti qui. Bene, c’è un repertorio di poesie che mi ha trasmesso mia madre che proviene tutto da Neviano. C’è una poesia che lei recitava sempre nei matrimoni dove era invitata (cosa che veramente faccio anch’io), e ci sono poesie religiose, sempre popolari, alcune delle quali, per la loro umanità, mi commuovono sempre quando le rileggo.
Anche molti proverbi che sono scritti su questo libro provengono da Neviano, come alcune canzoni, certi modi di dire, filastrocche, formule, tiritere…
Insomma (l’ho scritto anche nel sottotitolo) questo libro, come quello dei racconti, appartiene anche a Neviano. C’è una legge nella trasmissione orale, ed è quella che chi emigra conserva le tradizioni popolari più di chi resta al paese. Le tradizioni orali come i costumi, la lingua, per non dire la cucina. Sicchè, credo che, proprio perché i miei nonni e mia madre furono costretti ad andar via da Neviano, proprio per questo ebbero premura di conservare un patrimonio di tradizioni orali che facevano parte della loro cultura, e quindi della loro identità. Un patrimonio che li distingueva dagli altri abitanti di Collemeto, un patrimonio che leniva la tragedia del distacco da Neviano. E loro si vantavano di essere di Neviano, un vanto che si poteva perdonare, dal momento che, dacché mondo è mondo, ogni essere umano sta sempre lì a chiedersi: chi sono, da dove vengo. Chi ha delle radici si dà in qualche modo una risposta a queste domande, perché sa di appartenere a una famiglia, a un paese, a un territorio, a una lingua, a una cultura del vivere e del pensare. Senza questa appartenenza, ognuno di noi si sentirebbe smarrito. Fra le tante radici, il dialetto è tra quelle che più ci caratterizzano. I suoni e le parole che abbiamo ascoltato fin dai primi vagiti restano impressi nel nostro essere in modo indelebile, sicché possiamo imparare tutte le lingue del mondo, ma quando ci troviamo di fronte a un’emozione, un moto improvviso dell’animo, un dolore, una gioia, una sorpresa, un inciampo… ci viene sempre di esprimerci col dialetto (che è la nostra lingua madre) più che con l’italiano che abbiamo appreso a scuola.
Io, con questo libro, ho voluto mettere nero su bianco tutto quel che ricordavo della tradizione orale che mi è stata trasmessa. Per dirvi che il libro non nasce da una ricerca sul campo come fanno gli studiosi di folclore, ma da un bisogno di trasmettere, a mia volta, il mio piccolo patrimonio di fatti, poesie, canzoni, proverbi, modi di dire, eccetera, che ho ascoltato specie negli anni, tanti anni, in cui si stava seduti per tante lunghissime ore a raccogliere e infilare tabacco.
E tanto per dirvi della lingua straordinaria che è il nostro dialetto, voglio finire con mia madre, con una dichiarazione d’amore che un giorno, mi raccontava, le fece un suo pretendente quand’era ragazza.
Cia mia beddha, iu sta mmoru pe’ ttie. Ci tie me dici sine, quandu te sposu iu te tegnu intru ccasa comu ‘nu mazzu te fiuri: ca la mujere mia nu’ hae scire ffatica, lassa ca bbuttu lu sangu iu, ca sacciu cu zzappu e puru cu putu e la sciurnateddha esse sempre. E qualche cozza moniceddha, quarche cicora, quarche mendula, quarche fica nu’ tt’hae mmancare. E puru quarche zzippu pe’ ‘nna pignata te pasuli ca a mmie me piàcianu tantu. Timme sine, Cia mia beddha, ca, ci tie me sposi, te tegnu intru ccasa comu ‘na Matonna!”
Ecco, forse sarà una dichiarazione che oggi farà ridere un po’. A me, però, fa tanta tenerezza, e non credo che in italiano avrebbe la stessa efficacia.
Alfredo Romano
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