Dedica del Nuto all'interno della mia copia della "Luna e i falò" di Cesare Pavese,
edita da Mondadori nel 1969, 1a edizione
Il Nuto (Pinolo Scaglione)
Cesare Pavese
Alfredo Romano
(Pubblicato su IL PONTE, agosto-settembre 1991, nn. 8-9)
Sono varie e suggestive le testimonianze di amici e di letterati sulla vita, tra città e campagna, di Pavese raccolte da Franco Vaccaneo nell'interessante opera "Sulle orme di Cesare Pavese", Edizioni Omega, 1999. Vale la pena riferire sull'intervento dello scrittoreAlfredo Romano perché presenta tutti i tratti del saggio-documento. Romano infatti rimemora un suo viaggio che l'ha portato nei luoghi e fra gli individui che furono cari a Cesare Pavese al punto che entrarono da protagonisti nei suoi libri, da "Lavorare stanca" a "Paesi tuoi", da "Feria d'agosto" a "La luna e i falò". E specialmente de "La luna e i falò" l'ultimo romanzo, scritto poco tempo prima della sua tragica fine, si occupa Romano così che le Langhe, Camelli, Santo Stefano Belbo e il Nuto, il personaggio chiave del romanzo (il suo vero nome è Pinolo Scaglione), sono ricorrenti in tutto il testo. Di Nuto sono le toccanti confidenze, messe insieme nel saggio, allo scopo dì ricavare la natura vera ed intima di Pavese, uomo e scrittore. In tal modo, oltre che una descrizione strettamente connotativa di luoghi e persone, viene incisa un'attrazione poetìca che ben si coniuga con l'eco del linguaggio pavesiano. Quel linguaggio che Giorgio Barberi Squarotti definisce rappresentativo di una calca di déracinés, di persone oppresse dalla solitudine, irregolari, incapaci di rapporti umani, inquiete, tormentate dal desiderio di un mondo avventuroso e libero.
Gaetano Pampallona
Il racconto di viaggio:
ALFREDO ROMANO
Le langhe, il Nuto. Viaggio intorno a Cesare Pavese.
Le langhe, il Nuto. Viaggio intorno a Cesare Pavese.
Si tratta di un viaggio compiuto nel maggio 1976 alla ricerca dei luoghi e dei personaggi pavesiani, soprattutto di Pinolo Scaglione, il Nuto del romanzo La luna e i falò. Da quel viaggio tornai con tanti appunti. Ne venne fuori una specie di reportage conservato nel cassetto per tanti anni. Il Nuto è morto l’anno scorso (1990, ndr.) all’età di novant’anni. Il mio vuole essere un omaggio al Nuto, ma anche una testimonianza sull’uomo Pavese visto non dai soliti critici, ma dall’amico più caro che letterato non era.
[Dalla lettera trasmessa a Marcello Rossi, direttore del periodico Il Ponte, che accompagnava il manoscritto. Era la primavera del 1991].
Alfredo Romano
Non l’avevo mai viste queste colline, eppure affacciato dal finestrino del treno prossimo a Canelli, non posso fare a meno di osservarle con gli occhi di Pavese. È come se anch’io vi avessi trascorso l’infanzia. E cosi mi appaiono familiari le loro forme di poppe e i vigneti sui fianchi, a ricordarmi grappoli rossi che fan venir le voglie e… non solo di vini corposi. E poi questo verde fitto a giugno, quando, nel mio lontano Sud, i campi sono gialli e ardono di stoppie. E l’acqua, tanta, dei continui torrenti e canali, e un fiume (sarà forse il Belbo?) che fluisce lento sotto le rotaie. E cosi mi sono rivisto anch’io, nudo e ragazzo a fare il bagno tra quelle rive e, da grande, disteso sul greto con la pelle al sole, fumando la pipa sull’erba all’ombra dei canneti e, accanto, la carne soda di una donna che non è tua. È, come al solito, di un altro.
Alla stazione Ghione è venuto a prendermi con l’auto del padre. Son passati degli anni, ma è ancora rimasto quel ragazzotto contadino di quand’era soldato, col suo piemontese ostinato che non si capiva un accidente specie quando imprecava per qualche ingiusta consegna. In caserma, sapendolo di Canelli, m’era premuto familiarizzare con lui e quale sorpresa fu per me scoprire che suo padre, che faceva il bottaio, era un amico del Nuto, il protagonista del romanzo La luna e i falò. E quando a Ghione raccontavo di Pavese e del Nuto come personaggi mitici tra le colline di Canelli e di Santo Stefano Belbo, lui m’interrompeva sorpreso: “Ma chi, il Pinolo? Quello che fa le bigonce? Ma sì, sta sulla strada dì Canelli per Santo Stefano e ci passo tutti i giorni”. Quei luoghi, quei personaggi che avevano per me i contorni del mito, erano per lui invece familiari: e io lo invidiavo per questo. Gli promisi così che un giorno sarei andato a trovarlo: avevo bisogno di sfatare quel mito; ma certi miti, lo so, non si sfatano, perché il mito, come insegna Pavese, è un aggancio alla vita.
Ghione è un ragazzo cresciuto nella bottega artigiana del padre che, proprio come il Nuto, da giovane, a tempo libero, era stato un musicante: “Sai, cosa vuoi, sono venuto su dal niente e ora ho messo su un piccolo capitale che mi rende. Da giovane suonavo la tromba ed ero molto bravo, più bravo del Nuto che in fondo, suonava ‘1 clarinetto solo nelle feste e paesane, mentre io davo veri e propri spettacoli. Ho ancora con me le foto e i giornali che parlano di me e della mia tromba”.
Probabilmente Pavese non avrebbe avuto proprio a cuore la presunzione del padre di Ghione, ma ce n’è tanta di gente così a Canelli che la musica ce l’ha nel sangue. E Ghione mi parla di bande e complessi perché qui quasi tutti hanno studiato musica fin da ragazzi e non è detto che certe serate in collina, nelle cascine, sull’aia, tra i vigneti in pendio, non si ripetano più con tanto vino, con tanto fumo, e musica, baccano e ragazze e l’alba che si aspetta sempre su queste colline dopo una notte di festa.
Ci sono tante botti nella bottega di Ghione: nuove alcune, già pronte, il legno ancora fresco stretto da cerchioni di ferro fiammante; altre ancora da finire con le doghe non ancora curvate nella classica forma di pancia. Messe in fila cosi mi riportano ad Alì Babà e i quaranta ladroni. Ghione mi spiega come si costruisce una botte: ci vuole molto pazienza ma più dell’affezione. Tutto il giorno, con l’uso dei cunei, si batte sui cerchioni che stringono le doghe e non è detto che talvolta non ci scappi un dito. Per costringere le doghe alla forma di pancia, si usa porre all’interno della botte un’apposita gabbia di ferro che racchiude un fuoco che deve essere costantemente attivato. È Ghione l’addetto al fuoco e così alla sera vien fuori che sembra uno spazzacamino.
“Ti piace, Ghione, questo lavoro?”.
“Diciamo che mi piace, forse altri non ne ho trovati. Certo lo faccio fin da ragazzo e mio padre, in fondo, non è poi tanto severo: si è più liberi e non è come stare dietro a un padrone”.
M’incuriosisce Ghione e penso che forse non abbia ancora una ragazza e glielo chiedo. Lui mi risponde che va ancora a ballare con gli amici e che ama il liscio anche se non è proprio il suo forte. La sua gente (e a lui piace molto frequentarla), invece, lo balla seriamente, a tempo, e si fanno pure delle gare, con personaggi curiosi, strani e di una simpatia unica. Uno di questi per esempio è uno spazzino, un tipo magro, sulla quarantina, pelato, senza denti, ma dicono si faccia le più belle ragazze del paese. Per questo è molto invidiato, ma tutti ammettono che nessuno sa fare bene il caschet come lui. Il padre dello spazzino, poi, era un vero artista, sapeva costruirti di tutto: dagli orologi, agli strumenti musicali. Bravo sì, ma s’accontentava di modesti compensi e così non aveva mai fatto fortuna. Ma anche il figlio non è da meno in quest’arte dell’arrangiarsi: non è raro infatti vederlo in giro a raccogliere cartone dopo otto ore del suo lavoro. Lo chiamano Balaiaco, ma non è per via che sa ballare.
Pinolo Scaglione, il Nuto, non è ancora arrivato. A metà strada tra Canelli e Santo Stefano Belbo, l’attendo seduto su di una panchina ai piedi di un vecchio tiglio che fa ombra su gran parte della bottega artigiana che “dà su uno stradone”, racconta Pavese nella Luna e i falò.
Star qui mi fa un certo effetto, mi procura emozioni che non saprei spiegare. Pavese vi è passato per trent’anni e mi pare di vederlo arrivare nella sua giacca consunta e con la pipa perennemente spenta, sedersi qui, su questa vecchia panchina a discorrere col Nuto, il Nuto saggio della valle del Belbo, il musicante delle allegre serate che innamorava di sé le ragazze del paese.
Sullo stradone corrono ora macchine assordanti e autocarri. Resta una vecchia bigoncia appoggiata su due cavalletti, ormai annerita dal tempo. È tutto rimasto com’era ai tempi di Cesare, mi ha assicurato ieri il Nuto, aggiungendo che, almeno fino alla sua morte, non verrà toccato niente e darà per questo nel suo testamento disposizioni precise.
Ha settantasei anni il Nuto, ormai vecchio e ingrassato. Ha perfino un paio d’occhiali che non gli nascondono però quegli occhi sornioni, da gatto, come li chiama Pavese. È un piacere sentirlo parlare, alla maniera del saggio, con un periodare minuto, cadenzato, non una parola superflua, arrabbiandosi perfino se l’interrompi, perché, dice, perderebbe il filo del discorso. L’impressione che ne ricavi è di una cultura non appresa sui libri ma dalla vita, le cui avventure sono quelle quotidiane, dove il dolore e la gioia si mescolano fino a diventare l’uno la condizione dell’altra.
Il Nuto l’ho incontrato ieri per la prima volta. Nella sua casa del Salto ci sono arrivato in bicicletta, una tipica del dopoguerra che mi ha prestato gelosamente il padre di Ghione. Non vi abita ma ci viene spesso, quasi a far rivivere luoghi e personaggi che appartengono ormai alla letteratura, nella quale per tutti lui è morto da tempo e non servono certo i tipi come me a liberarlo dal mito dove è stato relegato.
Mi ha fatto, a vederlo, quasi pena, dimenticato, a giudicare dall’indifferenza dei passanti che scorrono ignari sullo stradone ora asfaltato, davanti al Nuto, davanti a questa bottega che ha visto Pavese amare la vita, le lunghe scampagnate… S’allontanavano insieme la mattina per tornare sul tardi e mangiare con tanta fame: passeggiate tra i boschi di queste colline, fino a stancarsi.
La bottega del Nuto sembra ormai un vecchio cimelio. Il fratello, Candido, è morto proprio qualche mese fa. Candido costruiva tavolinetti intarsiati, mandolini, chitarre, violini: aveva la mano di un artista, afferma il Nuto con orgoglio, e questi strumenti non hanno un prezzo, perché non ha prezzo la fatica e la passione per creare queste cose. “Ero otto anni più grande di Cesare”, attacca il Nuto in tono così familiare. «Io gli ho insegnato a nuotare, andare a caccia di nidi, a giuocare, a correre nei boschi, gli raccontavo vecchie storie che a lui piacevano tanto e lui era lì ad ascoltarmi per delle ore, quasi beato. Ero un saltatore io, fin da ragazzo sono stato un selvaggio e facevo delle gare”.
Non è difficile scoprire come dietro i personaggi della Luna e i falò ci sia il Nuto: Valino, Cinto, Silvia, Irene, sono tutti realmente esistiti. Come egli stesso afferma, è stato lui a fornire a Pavese gli elementi per la definizione dei personaggi.
«Hai fatto bene, Pinolo, a lasciare Torino e tornartene a Santo Stefano», gli confidò Pavese «come avrei potuto scrivere i miei romanzi se tu fossi rimasto a Torino?»
Il Nuto per Pavese era l’infanzia, era la terra a cui era legato, era la gente delle colline con la sua saggezza popolare, era colui che conosceva i segreti della vita e a lui ci si poteva affidare con sicurezza. E proprio quando la vita sembrava sfumargli o aveva paura di perdersi in mezzo a gente che non capiva o che era legata a lui per degli interessi, visto che era uno scrittore affermato, allora era il momento che si legava di più al Nuto. Pavese in ogni modo ha sempre cercato un colloquio con la gente, che solo dopo la morte però ha potuto trovare. A quel tempo scriveva sull’Unità e su Rinascita del nuovo ruolo degli intellettuali in quella società nata dalla Resistenza. Parlava dell’artista non isolato che produce le sue opere scavando nel sociale l’individualità di un personaggio. In quanto a questo è stato coerente. L’accusa rivoltagli da Alberto Moravia di essere stato uno scrittore provinciale, si trasforma nella lode più degna, proprio per il merito che ha avuto di far assurgere la provincia, i personaggi e i luoghi più comuni agli onori della letteratura. Pavese ha scritto traendo dalla realtà e dalla realtà è scaturita la storia, la vita, le sofferenze antiche e attuali di una gente, quella delle Langhe, soprattutto contadina, e, come tale, fuori dalla cultura ufficiale. Una gente che Pavese ha riscattato, facendo trasparire una cultura ‘minore’ degna di essere capita da quella colta.
lo starei a sentirlo chissà per quanto. Nuto va a ruota libera, è un vulcano di parole, mi parla di tutto e non solo di Pavese. Non ho un registratore, prendo appunti, faccio fatica a fargli seguire l’ordine delle mie domande, che faccio pure brevi, ma sulle quali mi preme molto sentirlo raccontare.
Alla stazione Ghione è venuto a prendermi con l’auto del padre. Son passati degli anni, ma è ancora rimasto quel ragazzotto contadino di quand’era soldato, col suo piemontese ostinato che non si capiva un accidente specie quando imprecava per qualche ingiusta consegna. In caserma, sapendolo di Canelli, m’era premuto familiarizzare con lui e quale sorpresa fu per me scoprire che suo padre, che faceva il bottaio, era un amico del Nuto, il protagonista del romanzo La luna e i falò. E quando a Ghione raccontavo di Pavese e del Nuto come personaggi mitici tra le colline di Canelli e di Santo Stefano Belbo, lui m’interrompeva sorpreso: “Ma chi, il Pinolo? Quello che fa le bigonce? Ma sì, sta sulla strada dì Canelli per Santo Stefano e ci passo tutti i giorni”. Quei luoghi, quei personaggi che avevano per me i contorni del mito, erano per lui invece familiari: e io lo invidiavo per questo. Gli promisi così che un giorno sarei andato a trovarlo: avevo bisogno di sfatare quel mito; ma certi miti, lo so, non si sfatano, perché il mito, come insegna Pavese, è un aggancio alla vita.
Ghione è un ragazzo cresciuto nella bottega artigiana del padre che, proprio come il Nuto, da giovane, a tempo libero, era stato un musicante: “Sai, cosa vuoi, sono venuto su dal niente e ora ho messo su un piccolo capitale che mi rende. Da giovane suonavo la tromba ed ero molto bravo, più bravo del Nuto che in fondo, suonava ‘1 clarinetto solo nelle feste e paesane, mentre io davo veri e propri spettacoli. Ho ancora con me le foto e i giornali che parlano di me e della mia tromba”.
Probabilmente Pavese non avrebbe avuto proprio a cuore la presunzione del padre di Ghione, ma ce n’è tanta di gente così a Canelli che la musica ce l’ha nel sangue. E Ghione mi parla di bande e complessi perché qui quasi tutti hanno studiato musica fin da ragazzi e non è detto che certe serate in collina, nelle cascine, sull’aia, tra i vigneti in pendio, non si ripetano più con tanto vino, con tanto fumo, e musica, baccano e ragazze e l’alba che si aspetta sempre su queste colline dopo una notte di festa.
Ci sono tante botti nella bottega di Ghione: nuove alcune, già pronte, il legno ancora fresco stretto da cerchioni di ferro fiammante; altre ancora da finire con le doghe non ancora curvate nella classica forma di pancia. Messe in fila cosi mi riportano ad Alì Babà e i quaranta ladroni. Ghione mi spiega come si costruisce una botte: ci vuole molto pazienza ma più dell’affezione. Tutto il giorno, con l’uso dei cunei, si batte sui cerchioni che stringono le doghe e non è detto che talvolta non ci scappi un dito. Per costringere le doghe alla forma di pancia, si usa porre all’interno della botte un’apposita gabbia di ferro che racchiude un fuoco che deve essere costantemente attivato. È Ghione l’addetto al fuoco e così alla sera vien fuori che sembra uno spazzacamino.
“Ti piace, Ghione, questo lavoro?”.
“Diciamo che mi piace, forse altri non ne ho trovati. Certo lo faccio fin da ragazzo e mio padre, in fondo, non è poi tanto severo: si è più liberi e non è come stare dietro a un padrone”.
M’incuriosisce Ghione e penso che forse non abbia ancora una ragazza e glielo chiedo. Lui mi risponde che va ancora a ballare con gli amici e che ama il liscio anche se non è proprio il suo forte. La sua gente (e a lui piace molto frequentarla), invece, lo balla seriamente, a tempo, e si fanno pure delle gare, con personaggi curiosi, strani e di una simpatia unica. Uno di questi per esempio è uno spazzino, un tipo magro, sulla quarantina, pelato, senza denti, ma dicono si faccia le più belle ragazze del paese. Per questo è molto invidiato, ma tutti ammettono che nessuno sa fare bene il caschet come lui. Il padre dello spazzino, poi, era un vero artista, sapeva costruirti di tutto: dagli orologi, agli strumenti musicali. Bravo sì, ma s’accontentava di modesti compensi e così non aveva mai fatto fortuna. Ma anche il figlio non è da meno in quest’arte dell’arrangiarsi: non è raro infatti vederlo in giro a raccogliere cartone dopo otto ore del suo lavoro. Lo chiamano Balaiaco, ma non è per via che sa ballare.
Pinolo Scaglione, il Nuto, non è ancora arrivato. A metà strada tra Canelli e Santo Stefano Belbo, l’attendo seduto su di una panchina ai piedi di un vecchio tiglio che fa ombra su gran parte della bottega artigiana che “dà su uno stradone”, racconta Pavese nella Luna e i falò.
Star qui mi fa un certo effetto, mi procura emozioni che non saprei spiegare. Pavese vi è passato per trent’anni e mi pare di vederlo arrivare nella sua giacca consunta e con la pipa perennemente spenta, sedersi qui, su questa vecchia panchina a discorrere col Nuto, il Nuto saggio della valle del Belbo, il musicante delle allegre serate che innamorava di sé le ragazze del paese.
Sullo stradone corrono ora macchine assordanti e autocarri. Resta una vecchia bigoncia appoggiata su due cavalletti, ormai annerita dal tempo. È tutto rimasto com’era ai tempi di Cesare, mi ha assicurato ieri il Nuto, aggiungendo che, almeno fino alla sua morte, non verrà toccato niente e darà per questo nel suo testamento disposizioni precise.
Ha settantasei anni il Nuto, ormai vecchio e ingrassato. Ha perfino un paio d’occhiali che non gli nascondono però quegli occhi sornioni, da gatto, come li chiama Pavese. È un piacere sentirlo parlare, alla maniera del saggio, con un periodare minuto, cadenzato, non una parola superflua, arrabbiandosi perfino se l’interrompi, perché, dice, perderebbe il filo del discorso. L’impressione che ne ricavi è di una cultura non appresa sui libri ma dalla vita, le cui avventure sono quelle quotidiane, dove il dolore e la gioia si mescolano fino a diventare l’uno la condizione dell’altra.
Il Nuto l’ho incontrato ieri per la prima volta. Nella sua casa del Salto ci sono arrivato in bicicletta, una tipica del dopoguerra che mi ha prestato gelosamente il padre di Ghione. Non vi abita ma ci viene spesso, quasi a far rivivere luoghi e personaggi che appartengono ormai alla letteratura, nella quale per tutti lui è morto da tempo e non servono certo i tipi come me a liberarlo dal mito dove è stato relegato.
Mi ha fatto, a vederlo, quasi pena, dimenticato, a giudicare dall’indifferenza dei passanti che scorrono ignari sullo stradone ora asfaltato, davanti al Nuto, davanti a questa bottega che ha visto Pavese amare la vita, le lunghe scampagnate… S’allontanavano insieme la mattina per tornare sul tardi e mangiare con tanta fame: passeggiate tra i boschi di queste colline, fino a stancarsi.
La bottega del Nuto sembra ormai un vecchio cimelio. Il fratello, Candido, è morto proprio qualche mese fa. Candido costruiva tavolinetti intarsiati, mandolini, chitarre, violini: aveva la mano di un artista, afferma il Nuto con orgoglio, e questi strumenti non hanno un prezzo, perché non ha prezzo la fatica e la passione per creare queste cose. “Ero otto anni più grande di Cesare”, attacca il Nuto in tono così familiare. «Io gli ho insegnato a nuotare, andare a caccia di nidi, a giuocare, a correre nei boschi, gli raccontavo vecchie storie che a lui piacevano tanto e lui era lì ad ascoltarmi per delle ore, quasi beato. Ero un saltatore io, fin da ragazzo sono stato un selvaggio e facevo delle gare”.
Non è difficile scoprire come dietro i personaggi della Luna e i falò ci sia il Nuto: Valino, Cinto, Silvia, Irene, sono tutti realmente esistiti. Come egli stesso afferma, è stato lui a fornire a Pavese gli elementi per la definizione dei personaggi.
«Hai fatto bene, Pinolo, a lasciare Torino e tornartene a Santo Stefano», gli confidò Pavese «come avrei potuto scrivere i miei romanzi se tu fossi rimasto a Torino?»
Il Nuto per Pavese era l’infanzia, era la terra a cui era legato, era la gente delle colline con la sua saggezza popolare, era colui che conosceva i segreti della vita e a lui ci si poteva affidare con sicurezza. E proprio quando la vita sembrava sfumargli o aveva paura di perdersi in mezzo a gente che non capiva o che era legata a lui per degli interessi, visto che era uno scrittore affermato, allora era il momento che si legava di più al Nuto. Pavese in ogni modo ha sempre cercato un colloquio con la gente, che solo dopo la morte però ha potuto trovare. A quel tempo scriveva sull’Unità e su Rinascita del nuovo ruolo degli intellettuali in quella società nata dalla Resistenza. Parlava dell’artista non isolato che produce le sue opere scavando nel sociale l’individualità di un personaggio. In quanto a questo è stato coerente. L’accusa rivoltagli da Alberto Moravia di essere stato uno scrittore provinciale, si trasforma nella lode più degna, proprio per il merito che ha avuto di far assurgere la provincia, i personaggi e i luoghi più comuni agli onori della letteratura. Pavese ha scritto traendo dalla realtà e dalla realtà è scaturita la storia, la vita, le sofferenze antiche e attuali di una gente, quella delle Langhe, soprattutto contadina, e, come tale, fuori dalla cultura ufficiale. Una gente che Pavese ha riscattato, facendo trasparire una cultura ‘minore’ degna di essere capita da quella colta.
lo starei a sentirlo chissà per quanto. Nuto va a ruota libera, è un vulcano di parole, mi parla di tutto e non solo di Pavese. Non ho un registratore, prendo appunti, faccio fatica a fargli seguire l’ordine delle mie domande, che faccio pure brevi, ma sulle quali mi preme molto sentirlo raccontare.
Nuto, si sa che Pavese prima di morire veniva spesso a trovarti: com’era negli ultimi tempi?
«Vidi Cesare l’ultima volta un mese prima che morisse in modo così sfortunato. Ricordo che stava molto giù, non dormiva, non mangiava e così era anche fisicamente distrutto e s’era preso un esaurimento nervoso. lo che sapevo quanto lui amasse la vita, ricordo di non averlo mai visto così prima d’allora. Quelli però che dicono che Cesare coltivasse il suicidio fin da ragazzo, dicono delle panzane. E poi Cesare era ormai un uomo fatto e a quarantadue anni aveva raggiunto una tale maturità, che se ne sbatteva le scatole di una certa critica a lui di certo non amica. Si fosse ucciso a trentacinque anni, per modo di dire, avrei capito che da tempo coltivasse quel gesto: ma non a quarantadue. Aveva diciassette anni quando un suo coetaneo si uccise per amore (Elio Baraldi - n.d.r.). Qualcuno sostiene che Cesare tentò di imitare quel gesto; non è vero, semplicemente scrisse per lui una poesia. Ne parla pure Lajolo, che è pure un mio amico, ma, vedi, quando uno scrive o riporta dei fatti, dà sempre un’impronta personale a quello che scrive e ciò serve perché il libro venga più letto e apprezzato. Ma mi rifiuto di dedurre una vocazione al suicidio semplicemente da una lettura delle opere di Cesare. La verità è che a quel punto Cesare non aveva altra scelta. Troppe delusioni aveva ricevuto: quelle degli amici, della critica e, soprattutto, delle donne».
Ma che fine avevano fatto tutti gli amici di un tempo?
«Amici come Mila, Bobbio e Vaudagna, ormai li frequentava di rado. L’unico rimasto, Einaudi, s’era sposato e, sai, questo diventa sempre un buon motivo per diradare certe amicizie. Anche Monti, per il quale nutriva una profonda ammirazione, un maestro meraviglioso per lui, Cesare diceva che neanche lui lo capiva ormai. Questo dimostra, secondo me, quanto Cesare avesse smisuratamente superato i suoi compagni.
«Dal 1948 veniva a trovare solo me ormai: gli ero l’unico amico rimasto. Mangiava sempre da me, ma non ci dormiva, non voleva, temeva di dar disturbo alla mia famiglia. La notte lui soffriva d’asma ed era spesso costretto ad alzarsi e aprire la finestra, altrimenti, diceva lui, si sentiva soffocare. Preferiva così andare in albergo, l’Albergo della Posta a Santo Stefano. Cesare era troppo buono e temeva sempre di recarci fastidio. Gli ultimi mesi, per dormire, era costretto a prendere una bustina di sonnifero, in seguito due; ormai aveva raggiunto l’assuefazione. Era sconsolato allora, sfiduciato di tutti».
«Dal 1948 veniva a trovare solo me ormai: gli ero l’unico amico rimasto. Mangiava sempre da me, ma non ci dormiva, non voleva, temeva di dar disturbo alla mia famiglia. La notte lui soffriva d’asma ed era spesso costretto ad alzarsi e aprire la finestra, altrimenti, diceva lui, si sentiva soffocare. Preferiva così andare in albergo, l’Albergo della Posta a Santo Stefano. Cesare era troppo buono e temeva sempre di recarci fastidio. Gli ultimi mesi, per dormire, era costretto a prendere una bustina di sonnifero, in seguito due; ormai aveva raggiunto l’assuefazione. Era sconsolato allora, sfiduciato di tutti».
E il legame con la famiglia della sorella, neanche quello gli era rimasto?
«Nella sua famiglia Cesare è stato sempre un incompreso: in fondo era stato considerato sempre una pecora nera. La sorella Maria e il cognato Sini si vergognavano addirittura di avere un fratello così, soprattutto perché era comunista: Adesso ne dicono bene, anche perché ricavano degli utili sui libri di Cesare: mi risulta infatti che Einaudi passi alla sorella una quota mensile».
Dopo la guerra, Pavese si iscrisse al Pci, ma tu che lo conoscevi così bene, puoi dirmi che tipo di comunista era?
«Cesare, sai, era di sinistra. Anch’io sono di sinistra. Lui e io, in fondo, eravamo dei diseredati della vita. Un mattino, dopo la Liberazione (ero abituato a leggere molti giornali allora per conoscere le varie opinioni), un mattino dunque, trovandomi a Canelli, mi capita sottomano l’Unità e scorgo subito con sorpresa l’articolo di fondo firmato da Cesare. Mi fece meraviglia questo. Sapevo che Cesare era di sinistra, ma non potevo immaginare che avesse scelto di scrivere per l’Unità. Sicché, appena lo incontro gli dico: Cesare, come mai ora scrivi sull’Unità? E lui: “Noi della casa editrice ci siamo tutti iscritti al Partito comunista”.
«lo allora: Cesare, se essere comunista vuol dire essere come te, anch’io sono comunista! Però mi iscrissi ai Partito socialista. Sai, allora, iscriversi al Pci significava tribolare. Molti rischi ho sopportato durante la guerra dando ricovero a dei partigiani, e spesso sono stato sul punto di vedermi bruciarela casa. Dopo la guerra, qui a Canelli e a Santo Stefano, c’era un clima da guerra fredda: i preti e le signore perbene invocavano Dio contro il comunismo. Anche questi, sai, erano capaci di bruciarti la casa.
«Vedi, Cesare però era un comunista particolare. Voglio dire, nella guerra di Resistenza lui non imbracciò il fucile per andare in montagna come gli altri. Io stesso gli sconsigliavo d’andarci, perché il fisico non glielo permetteva. Era gracile e malato d’asma. Ma soprattutto per un’altra cosa Cesare non andò in montagna: lui non era capace di uccidere neanche una mosca. Il sangue lo faceva rabbrividire, non era capace di sparare. Cesare, però, è stato un antifascista della prima ora e, se tutti fossero stati come lui, il fascismo oggi non sarebbe noto neppure di nome. Ci sono tanti cosiddetti democratici in giro oggi: molti sono dell’ultima ora!».
«lo allora: Cesare, se essere comunista vuol dire essere come te, anch’io sono comunista! Però mi iscrissi ai Partito socialista. Sai, allora, iscriversi al Pci significava tribolare. Molti rischi ho sopportato durante la guerra dando ricovero a dei partigiani, e spesso sono stato sul punto di vedermi bruciare
«Vedi, Cesare però era un comunista particolare. Voglio dire, nella guerra di Resistenza lui non imbracciò il fucile per andare in montagna come gli altri. Io stesso gli sconsigliavo d’andarci, perché il fisico non glielo permetteva. Era gracile e malato d’asma. Ma soprattutto per un’altra cosa Cesare non andò in montagna: lui non era capace di uccidere neanche una mosca. Il sangue lo faceva rabbrividire, non era capace di sparare. Cesare, però, è stato un antifascista della prima ora e, se tutti fossero stati come lui, il fascismo oggi non sarebbe noto neppure di nome. Ci sono tanti cosiddetti democratici in giro oggi: molti sono dell’ultima ora!».
Hai parlato di un Pavese giornalista, ma per tutti Pavese resta soprattutto un poeta, uno scrittore. Da quale attività era più gratificato, secondo te?
«Cesare, dopo quel primo articolo, continuò a scrivere sull’Unità e anche su Rinascita. A me regalò l’abbonamento. Il direttore dell’Unità allora era Lajolo che, come si sa, ha scritto una biografia su Cesare; ma allora niente scrisse che in qualche modo facesse conoscere Pavese al pubblico come scrittore, almeno per confutare certi critici a lui sfavorevoli. Cesare era infatti mortificato per certa critica nei suoi confronti. Tra l’altro era un tipo schivo della pubblicità e desiderava che le sue poesie, i suoi romanzi venissero apprezzati spontaneamente, senza stimolo di nessuno. Era un tipo orgoglioso Cesare. Sentiva di essere una buona penna e pretendeva di essere capito, ma non voleva che qualcuno gli spianasse la strada. Ricordo come fosse ora, quando, dopo aver pubblicato Lavorare stanca, venne per dirmi: “Pinolo, ecco un libro delle mie poesie, tu le sai capire, ma non ne scriverò più perché non c’è stato nessuno che m’abbia detto: ho letto le tue poesie. Una cosa che mi umilia questa: non scriverò più poesie!”.
«Ma Cesare non poteva non scrivere: ce l’aveva nel sangue. Fu Paesi tuoi il suo primo romanzo e lo convinsi io a scriverlo, perché, fino ad allora, non faceva che portarmi tutti quei libri che lui traduceva dall’americano. Fu così che un giorno gli dissi: Cesare, senti, tutti questi libri che tu mi regali sono belli ma io voglio qualcosa di tuo. E lui: “Ma tu pensi che sia facile scrivere un libro?” E io: lo so che non è facile, ma io ti conosco e so che puoi e devi scriverlo».
«Poco tempo dopo si presentò infatti con Paesi tuoi. Ne aveva fatto stampare mille copie. Cento le aveva regalate agli amici, ma le altre rimasero invendute. Era mortificato per questo e un giorno, durante una delle solite passeggiate insieme su queste colline, notando che non era di buon umore gli chiesi: Cesare, scrivi tu una bella critica su Paesi tuoi e la firmo io, vedrai che qualcuno leggerà il tuo libro. Ma lui, indicandomi un’erba cattiva che gli era capitata sottomano, mi fece: “Piuttosto mangerei quest’erba invece d’umiliarmi così”. Si sentiva incompreso e ferito nel suo orgoglio e questo lo portò ad appartarsi e a rifiutare persino la compagnia degli amici».
«Ma Cesare non poteva non scrivere: ce l’aveva nel sangue. Fu Paesi tuoi il suo primo romanzo e lo convinsi io a scriverlo, perché, fino ad allora, non faceva che portarmi tutti quei libri che lui traduceva dall’americano. Fu così che un giorno gli dissi: Cesare, senti, tutti questi libri che tu mi regali sono belli ma io voglio qualcosa di tuo. E lui: “Ma tu pensi che sia facile scrivere un libro?” E io: lo so che non è facile, ma io ti conosco e so che puoi e devi scriverlo».
«Poco tempo dopo si presentò infatti con Paesi tuoi. Ne aveva fatto stampare mille copie. Cento le aveva regalate agli amici, ma le altre rimasero invendute. Era mortificato per questo e un giorno, durante una delle solite passeggiate insieme su queste colline, notando che non era di buon umore gli chiesi: Cesare, scrivi tu una bella critica su Paesi tuoi e la firmo io, vedrai che qualcuno leggerà il tuo libro. Ma lui, indicandomi un’erba cattiva che gli era capitata sottomano, mi fece: “Piuttosto mangerei quest’erba invece d’umiliarmi così”. Si sentiva incompreso e ferito nel suo orgoglio e questo lo portò ad appartarsi e a rifiutare persino la compagnia degli amici».
Negli ultimi tempi Pavese tornava più spesso a Santo Stefano Belbo. Perché e che rapporto teneva con questa sua terra natale?
«Cesare, in fondo, veniva qui per trovare solo me. Non frequentava molto la gente del luogo. A Santo Stefano c’era un cugino, di nome Stefano, che mi pregava sempre di presentargli Cesare, perché non lo conosceva ancora. Io feci presente a Cesare il desiderio del cugino, ma non se ne dimostrò interessato. Un giorno, però, s’incontrarono per caso e si salutarono. Accompagnava il cugino una ragazza di nome Federica e quando Cesare scoprì che si trattava della figlia di un altro suo cugino, quello dei Mari del Sud, se ne affezionò e prese a frequentarla. Il cugino dei Mari del Sud era per Cesare l’unico uomo che aveva veramente contato nella famiglia.
«È in questi luoghi che Cesare ha vissuto la sua infanzia. Una volta finito il baliatico, ricordo che venne allattato da mia sorella Vittoria. Io ero otto anni più grande di lui e appena si fece ragazzo, aveva dieci anni, lo portavo con me tra queste colline del Salto, gli facevo da guida, l’addestravo alla caccia di nidi, di bisce, di uccelli. Gli ho insegnato pure a nuotare. Ma io ero un selvaggio, un saltatore da ragazzo, e Cesare era lì che pendeva dalle mie labbra, con tutte quelle storie che gli raccontavo. Rimaneva delle ore, qui, in bottega, a sentirmi parlare e a vedermi faticare. A Cesare io ho voluto sempre molto bene. E che dire poi del suo ultimo libro, La luna e i falò, le cui storie, i personaggi non sono inventati; sono veri, glieli ho descritti io e lui è stato bravo a farci un romanzo. Certo, non tutte le parole che mi stanno in bocca nel romanzo sono mie, ma questo è il mestiere di scrittore e nel libro spesso io pronuncio parole di Cesare e viceversa».
«È in questi luoghi che Cesare ha vissuto la sua infanzia. Una volta finito il baliatico, ricordo che venne allattato da mia sorella Vittoria. Io ero otto anni più grande di lui e appena si fece ragazzo, aveva dieci anni, lo portavo con me tra queste colline del Salto, gli facevo da guida, l’addestravo alla caccia di nidi, di bisce, di uccelli. Gli ho insegnato pure a nuotare. Ma io ero un selvaggio, un saltatore da ragazzo, e Cesare era lì che pendeva dalle mie labbra, con tutte quelle storie che gli raccontavo. Rimaneva delle ore, qui, in bottega, a sentirmi parlare e a vedermi faticare. A Cesare io ho voluto sempre molto bene. E che dire poi del suo ultimo libro, La luna e i falò, le cui storie, i personaggi non sono inventati; sono veri, glieli ho descritti io e lui è stato bravo a farci un romanzo. Certo, non tutte le parole che mi stanno in bocca nel romanzo sono mie, ma questo è il mestiere di scrittore e nel libro spesso io pronuncio parole di Cesare e viceversa».
Una curiosità: Perché Pavese nella Luna e i falò ti chiama Nuto, c’è forse un particolare motivo?
«Ti spiego perché mi ha chiamato Nuto. Cesare aveva già finito la stesura del romanzo, ma non aveva ancora in mente il nome Nuto. Negli ultimi tempi io andavo ogni tanto a trovarlo a Torino, lui era già sofferente. Si era d’intesa che se arrivavo prima delle nove, lui m’aspettava al Caffè Plati; se dopo, lo avrei raggiunto io nel suo ufficio della casa editrice. Quel mattino vi giunsi dopo le nove. Corsi così al suo ufficio, impugnai la maniglia della porta, aprii con sorpresa ed esclamai: Ciao, Cesare! Lui s’alzò in piedi d’un botto e tutto felice gridò: “Benvenuto, sei il benvenuto, nuto nuto!”. Cosi nacque Nuto. Riavutosi dalla sorpresa, raccattò quattro pipe e uscimmo insieme, aveva da fare delle commissioni. Quella volta tornammo insieme a Santo Stefano, in bottega, a prendere l’aria buona, diceva lui».
«Cesare quando mi vedeva era sempre molto felice. Ricordo che parlammo della casa che avrebbe voluto riacquistare: in tempi difficilissimi quella casa era stata venduta per sole duemila lire e riaverla per lui era diventato un chiodo fisso. Si era in una delle solite passeggiate e gli dissi: Cesare, vedo che ci terresti tanto a riavere la tua casa. E lui: “Ci terrei, non ci sono posti più belli al mondo”. Non preoccuparti, Cesare, gli risposi, mettendo insieme i tuoi e i miei risparmi, riusciremo a riavere quella casa. Sai bene che chi l’ha comprata non l’ha fatto per affezione, è stato un mercanteggiamento. Basteranno duemila lire in più e si riavrà quella casa.
«Ma lui: “Perché, tu credi, Pinolo, che io abbia dei risparmi?” Certo che lo credo, sei impiegato alla Einaudi e scrivi un libro all’anno!”. “Di Paesi tuoi”, riprese sconsolato, “non ho venduto una copia, ma tanto, vedrai che un giorno leggeranno i miei libri e avranno dei fastidi per capirli”».
«Cesare quando mi vedeva era sempre molto felice. Ricordo che parlammo della casa che avrebbe voluto riacquistare: in tempi difficilissimi quella casa era stata venduta per sole duemila lire e riaverla per lui era diventato un chiodo fisso. Si era in una delle solite passeggiate e gli dissi: Cesare, vedo che ci terresti tanto a riavere la tua casa. E lui: “Ci terrei, non ci sono posti più belli al mondo”. Non preoccuparti, Cesare, gli risposi, mettendo insieme i tuoi e i miei risparmi, riusciremo a riavere quella casa. Sai bene che chi l’ha comprata non l’ha fatto per affezione, è stato un mercanteggiamento. Basteranno duemila lire in più e si riavrà quella casa.
«Ma lui: “Perché, tu credi, Pinolo, che io abbia dei risparmi?” Certo che lo credo, sei impiegato alla Einaudi e scrivi un libro all’anno!”. “Di Paesi tuoi”, riprese sconsolato, “non ho venduto una copia, ma tanto, vedrai che un giorno leggeranno i miei libri e avranno dei fastidi per capirli”».
Leggendo le poesie di Pavese s’avverte il suo desiderio di amare, un desiderio però non corrisposto. Tu che sei stato il suo migliore amico, ma anche un fratello maggiore, per quello che mi dici, non ti è mai successo di consigliarlo in fatto di donne? E comunque, che ti raccontava Pavese delle sue donne?
«Passando all’argomento delle donne, queste sono state per lui la delusione più terribile. A quei tempi, parlo del ‘35, io gli facevo conoscere le mie belle e un giorno anche lui finalmente mi fece una sorpresa: “Pinolo, ho anch’io una fidanzata!”. Vedessi com’era contento. Si trattava della donna dalla voce rauca [Tina Pizzardo, n.d.r.]. E passavamo così delle ore a parlare delle virtù e dei difetti delle nostre reciproche fidanzate. Uno di quei giorni Cesare ebbe una perquisizione della polizia fascista e gli furono trovate in camera delle lettere politicamente compromettenti, sicché venne arrestato, prima incarcerato e poi tradotto al confine a Brancaleone Calabro. Dopo, per intercessione della sorella e di un amico, un certo Vaudagna, gli furono condonati due anni e così dopo un anno potette tornarsene a Torino. Nel frattempo, però, la sua bella si era sposata con un altro. Per lui fu tale il colpo che, al riguardo, perdette la stima delle donne: “Non è tanto il fatto di aver perso la fidanzata, sai, può succedere”, si lamentava, “ma come sono stato lasciato io è diverso. Eravamo in così ottimi rapporti, nessun motivo di lasciarci e poi si è sposata in così pochi mesi”».
«Per tanto tempo non ebbe più una fidanzata. Quando negli ultimi tempi fu mandato a Roma dalla casa editrice, qui conobbe un’attrice (Costance Dawling, n.d.r.) che lo elogiava molto. Quando venni a saperlo dissi a Cesare un po’ preoccupato: Cesare, sta bene, non penserai mica di sposarla, si tratta di un’attrice, un’americana… gente difficile. Tu invece hai bisogno di una donna semplice, che ti capisca.
«Ma Cesare ne era innamorato follemente, a tal punto che anch’io mi arresi e arrivai a condividere quel rapporto, anzi gli feci: Cesare, senti, io ho sempre parlato a vanvera, ma da quella sera che t’ho visto partire per Roma per la prima volta ed eri così triste, sai che ti dico? Sposa pure quella donna, con tutto quello che mi hai detto di lei, dove troverai un’altra così?
«E lui raggiante: “Andrò a Roma, nel mese entrante, per combinare il matrimonio, perché in questo momento è assente, è tornata in America, a Roma c’è rimasta la sorella”. E io: Cesare, voglio conoscere questa donna, tra tutte le belle che mi hai raccontato, deve essere una di quelle che io non ho mai visto. “Stai tranquillo”, mi fa, “appena posso la prendo e la porto a Torino. Lei vuole conoscere questi posti, ha letto La luna e i falò, debbo dirti che è l’unica donna che mi abbia veramente compreso”».
«Fu questo il nostro ultimo colloquio. Io purtroppo devo aggiungere che quell’attrice elogiava Cesare perché sperava di far successo in compagnia di uno scrittore ormai di fama (Pavese aveva appena ricevuto il premio Strega, n.d.r.). Ma Cesare era un credulone, pensava che tutti fossero trasparenti come lui e ha creduto pure in quella donna che se ne tornò in America lasciando detto alla sorella che non avrebbe mai sposato Cesare. Penso proprio che a quest’ultima disgrazia Cesare non resse».
Il Nuto non parla più. I suoi occhi, non più grandi, si socchiudono a un pianto interno ma visibile nelle sue ultime parole. Mi fissano i suoi occhi, mi implorano, quasi mi dicono “Basta ora, ti ho detto tutto, bello è il ricordo ma anche amaro”. Così, nella casa del Salto, grava ora uno strano silenzio, imbarazzante quasi, non s’ode più il ‘vulcano di parole’. Su entrambi pesa la medesima sensazione: Cesare, Cesare Pavese, il fumo della pipa, i primi libri con dedica all’amico Pinolo, la sua faccia scarna che sembra una civetta, quegli occhi buoni che un leggero paio di occhiali nascondono invano, Cesare Pavese era lì (Ora, a distanza di qualche tempo, mi è più chiaro quel silenzio: era proprio quel silenzio che si deve a un morto, un silenzio che era soprattutto rispetto). Dai vetri della finestra i contorni delle colline appaiono ancora netti, malgrado il tramonto s’appresta. La porta è semichiusa, è maggio, e giunge gradito quel profumo d’erba fresca che soffia dai prati sul far della sera. Come spinti dallo stesso pensiero, io e il Nuto siamo già sulla soglia. La vecchia bigoncia sospesa sul cavalletto, sul piccolo piazzale antistante lo stradone, mi dà quasi l’idea di un monumento. Ma qui su tutto aleggia il mito e a quest’ora anche le macchine non scorrono più. È Nuto a rompere il ghiaccio:
«E quando vai a casa e metti ordine ai tuoi appunti non scrivere delle panzane, eh?»
«Non preoccuparti, Nuto, non le scrivo e poi voglio bene a Pavese, lo stimo soprattutto come poeta e scrittore».
«Se lo merita!»
E salta fuori a questo punto la sua intolleranza verso quanti su Pavese hanno scritto senza averlo veramente capito. Il suo, però, è il risentimento di un padre che non gradisce che s’offenda la memoria di un figlio. Il discorso cade facilmente su Moravia: «Se venisse qui a parlarmi di Pavese, gli direi che è un birbaccione e che non ha capito niente!»
«Stammi bene, Nuto, ti auguro una vita lunghissima».
«Tanti auguri a te che sei giovane».
Mi voltavo così per andarmene: «Come ti chiami, a proposito?»
«Alfredo,Alfredo Romano ».
«Bene, me ne ricorderò, non è un nome difficile da ricordare».
Così ha raccolto un gesso e, su una tavola appoggiata alla parete, vi ha scritto il mio nome e indirizzo. Poi è sparito nella sua utilitaria, mentre io in bicicletta inforcavo la strada del ritorno verso Canelli. Appena mille metri e, per caso, l’ho intravisto in un campo arato ai piedi di una collina, che gesticolava con dei trattoristi gridando a gran voce. Toh, eccoti il Nuto, mi son detto, e chissà quanto darebbe Pavese, ora, per vederlo così. Malgrado l’età, è rimasto lo stesso della Luna e i falò: i suoi occhi sornioni, da gatto e sarebbe ancora capace di fare delle gare e con la nota del suo clarino ispirare tenerezza a qualche ragazza del luogo, di quelle che, quando vendemmiano, ti offrono un grappolo d’uva e si avrebbe voglia d’addentarlo in una sola volta.
«Ma Cesare ne era innamorato follemente, a tal punto che anch’io mi arresi e arrivai a condividere quel rapporto, anzi gli feci: Cesare, senti, io ho sempre parlato a vanvera, ma da quella sera che t’ho visto partire per Roma per la prima volta ed eri così triste, sai che ti dico? Sposa pure quella donna, con tutto quello che mi hai detto di lei, dove troverai un’altra così?
«E lui raggiante: “Andrò a Roma, nel mese entrante, per combinare il matrimonio, perché in questo momento è assente, è tornata in America, a Roma c’è rimasta la sorella”. E io: Cesare, voglio conoscere questa donna, tra tutte le belle che mi hai raccontato, deve essere una di quelle che io non ho mai visto. “Stai tranquillo”, mi fa, “appena posso la prendo e la porto a Torino. Lei vuole conoscere questi posti, ha letto La luna e i falò, debbo dirti che è l’unica donna che mi abbia veramente compreso”».
«Fu questo il nostro ultimo colloquio. Io purtroppo devo aggiungere che quell’attrice elogiava Cesare perché sperava di far successo in compagnia di uno scrittore ormai di fama (Pavese aveva appena ricevuto il premio Strega, n.d.r.). Ma Cesare era un credulone, pensava che tutti fossero trasparenti come lui e ha creduto pure in quella donna che se ne tornò in America lasciando detto alla sorella che non avrebbe mai sposato Cesare. Penso proprio che a quest’ultima disgrazia Cesare non resse».
Il Nuto non parla più. I suoi occhi, non più grandi, si socchiudono a un pianto interno ma visibile nelle sue ultime parole. Mi fissano i suoi occhi, mi implorano, quasi mi dicono “Basta ora, ti ho detto tutto, bello è il ricordo ma anche amaro”. Così, nella casa del Salto, grava ora uno strano silenzio, imbarazzante quasi, non s’ode più il ‘vulcano di parole’. Su entrambi pesa la medesima sensazione: Cesare, Cesare Pavese, il fumo della pipa, i primi libri con dedica all’amico Pinolo, la sua faccia scarna che sembra una civetta, quegli occhi buoni che un leggero paio di occhiali nascondono invano, Cesare Pavese era lì (Ora, a distanza di qualche tempo, mi è più chiaro quel silenzio: era proprio quel silenzio che si deve a un morto, un silenzio che era soprattutto rispetto). Dai vetri della finestra i contorni delle colline appaiono ancora netti, malgrado il tramonto s’appresta. La porta è semichiusa, è maggio, e giunge gradito quel profumo d’erba fresca che soffia dai prati sul far della sera. Come spinti dallo stesso pensiero, io e il Nuto siamo già sulla soglia. La vecchia bigoncia sospesa sul cavalletto, sul piccolo piazzale antistante lo stradone, mi dà quasi l’idea di un monumento. Ma qui su tutto aleggia il mito e a quest’ora anche le macchine non scorrono più. È Nuto a rompere il ghiaccio:
«E quando vai a casa e metti ordine ai tuoi appunti non scrivere delle panzane, eh?»
«Non preoccuparti, Nuto, non le scrivo e poi voglio bene a Pavese, lo stimo soprattutto come poeta e scrittore».
«Se lo merita!»
E salta fuori a questo punto la sua intolleranza verso quanti su Pavese hanno scritto senza averlo veramente capito. Il suo, però, è il risentimento di un padre che non gradisce che s’offenda la memoria di un figlio. Il discorso cade facilmente su Moravia: «Se venisse qui a parlarmi di Pavese, gli direi che è un birbaccione e che non ha capito niente!»
«Stammi bene, Nuto, ti auguro una vita lunghissima».
«Tanti auguri a te che sei giovane».
Mi voltavo così per andarmene: «Come ti chiami, a proposito?»
«Alfredo,
«Bene, me ne ricorderò, non è un nome difficile da ricordare».
Così ha raccolto un gesso e, su una tavola appoggiata alla parete, vi ha scritto il mio nome e indirizzo. Poi è sparito nella sua utilitaria, mentre io in bicicletta inforcavo la strada del ritorno verso Canelli. Appena mille metri e, per caso, l’ho intravisto in un campo arato ai piedi di una collina, che gesticolava con dei trattoristi gridando a gran voce. Toh, eccoti il Nuto, mi son detto, e chissà quanto darebbe Pavese, ora, per vederlo così. Malgrado l’età, è rimasto lo stesso della Luna e i falò: i suoi occhi sornioni, da gatto e sarebbe ancora capace di fare delle gare e con la nota del suo clarino ispirare tenerezza a qualche ragazza del luogo, di quelle che, quando vendemmiano, ti offrono un grappolo d’uva e si avrebbe voglia d’addentarlo in una sola volta.
(Pubblicato su IL PONTE, agosto-settembre 1991, nn. 8-9)
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TESTIMONIANZE
Un articolo di Gaetano Pampallona, poeta e scrittore, morto a Roma nel 2003, apparso sul Corriere di Viterbo il 3 gennaio 1991
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Sempre di Gaetano Pampallona:
Sempre di Gaetano Pampallona:
SAGGIO ALLA RICERCA DELL'UOMO E DELLO SCRITTORE SULLE ORME DI CESARE PAVESE
Apparso su IMPUT, periodico mensile di informazione e cultura, Roma, nov. 2000, n.55.
Sono varie e suggestive le testimonianze di amici e di letterati sulla vita, tra città e campagna, di Pavese raccolte da Franco Vaccaneo nell'interessante opera "Sulle orme di Cesare Pavese", Edizioni Omega, 1999. Vale la pena riferire sull'intervento dello scrittore
Per questa via il livello di presenza del saggista nell'ambito dell'alienazione sgomenta e disperata del pianeta Pavese, giunge alla matrice psicologica di straordinari prototipi, dipanando in modo appassionato complesse, angosciate problematiche. Così facendo, Romano muove una scrittura di scavo e di annotazioni sui registri della speranza e della sconfìtta, inerenti al mondo che ruotò intorno a Pavese, con quanto di straniato e mitico, indecifrabile, è in esso contenuto.
Per questo ordine di motivi si mette nella giusta luce l'intricata fenomenologia delle incomprensioni e delle violenze, proprie di una certa campagna piemontese, chiusa e "barbarica" con i suoi odi, le sue proteste, le sue vendette. Per altro verso, Romano indaga così magistralmente nella turbata ricezione che ne ebbe Pavese in relazione ai suoi conflitti e alle sue contraddizioni da lasciar venire in evidenza i! fallimento di quel suo bisogno ossessivo di cambiarsi, di quell'andane oltre lo stesso interrogativo de! vivere.
Si accennava più sopra a Nuto, 'amico illetterato che ha raccontato a Romano, il Pavese de "La luna e italo". Attorno a questo personaggio - a nostro parere - si fissano i momenti più efficaci del reportage, per gli effetti dì un assai singolare, rea'istico contrappunto. Dice Nuto: "La notte Cesare soffriva d'asma ed era costretto ad aprire la finestra, altrimenti si sarebbe sentito soffocare; preferiva così andare in albergo, l'Albergo della Posta a Santo Stefano, e non restare, dopo cena a casa mia per non dar fastidio. Cesare era troppo buono". Ed ancora: "Negli ultimi tempi persino Monti, il maestro per il quale Cesare nutriva una profonda ammirazione, e amici come Mila, Gobbio, Vaudagna si erano come dissolti. Cesare non lì cercava più. Troppe delusioni aveva ricevuto: quelle degli amici, della critica, e delle donne soprattutto. Le donne le vedeva come il riparo cui approdare dopo tante traversie culminate con il confino a Brancaleone Calabro.
Della 'donna dalla voce rauca', e poi dell'attrice Costance Dawling, che lo elogiava, amava sempre raccontare". "Per me - continua Nuto - la Dawling lo elogiava perché sperava dì far successo in compagnia di uno scrittore ormai famoso, che aveva appena ricevuto il 'Premio Strega'! Pensava che tutti fossero trasparenti come lui e quindi credette anche in una donna che se ne tornò in America lasciando detto però alla sorella che non lo avrebbe mai sposato. Penso proprio che a quest'ultima disgrazia Cesare non resse". Si susseguono così con tanta intensità le testimonianze del Nuto in modo che noi possiamo toccare con mano il Pavese dei nostri affetti. Testimonianze che si legano a tante altre di persone "sempiici" che lo conobbero, e il cui lessico senza dottrina trasmette, è il caso di dirlo, più alta e schietta la corale solidarietà.
Il Nuto e le persone semplici non sapevano certo delle prime poesie di "Lavorare stanca" o di quelle della seconda raccolta "Verrà la morte e avrà i tuoi occhi". Né sapevano, naturalmente sotto il profilo critico-letterario, delle opere narrative. Di sicuro intuivano la pavesiana tenacia contestativa dì un ordine sociale ingiusto e oppressivo, il cui controcanto non poteva che essere la solitudine sconfortante
dell'uomo indigente, cinicamente sfruttato e offeso.
dell'uomo indigente, cinicamente sfruttato e offeso.
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