domenica 9 dicembre 2007

LU NANNI ORCU E ALTRI RACCONTI SALENTINI / testimonianze




Nardò, Besa, 2000, prima edizione
Disegno di copertina di Maria Berto

Una recensione di Zeffirino Rizzelli apparsa sul quindicinale "Il Galatino", da lui diretto, del 7 aprile 2000. Zeffirelli è stato giornalista e scrittore di Galatina, direttore didattico e sindaco della stessa città. E' scomparso nell'agosto 2007.

In un libro pubblicato dalla editrice Besa l’amore che
Alfredo Romano nutre per la sua terra d’origine

I RACCONTI DI UN TEMPO PASSATO
Il ricordo personale, a distanza di tempo, soprattutto se è doloro­so, si mescola al racconto storico, si adegua alla memoria collettiva e modifica il significato e il valo­re del male, del dolore, della mor­te. Questo, soprattutto, quando il contesto dominante in cui esso riemerge nega la concreta realtà di quel passato per in­nalzare inni al successo, al benessere, al diritto di feli­cità.
L'esperienza delle genera­zioni precedenti, divenuta memoria genetica, non può essere solo ricordo perché si mescola a quella storia che interroga il passato a partire dal presente. Quando poi chi scrive quella storia si è trova­to a vivere l'esperienza dell'emigrazione, quella che rompe il rapporto con la pro­pria terra, la propria lingua, la comunità di appartenenza, allora il ricordo acquista la valenza di "testimonianza". A questo punto alcuni op­pongono un rifiuto netto al passato e perdono le radici dei luoghi e della comunità; altri caricano il passato di nostalgia, ne fanno un "bene personale" e si lasciano inva­dere dal nobilissimo senti­mento della "appartenenza".
È per tutto questo che, quando ho ricevuto in dono da Alfredo Romano il suo "Lu Nanni Orcu", edito dall'Editrice Besa, mi sono' accorto che lo aspettavo. Questo libro, infatti, è la logica continua­zione dei precedenti "Salento tra, mito e realtà" (1993), "Ci sono' notti che io" (1994), "Cantavamo Contessa" (1998).
II presagio più evidente crai proprio nell'ultimo, "Cantavamo Contessa", perché in quel "racconto" risulta più evidente l'amore struggente ed esaltante che il Romano si porta dentro: amore, per la sua terra d'origine, per i fa miliari rimasti nel contesto ambientale della sua giovinezza, per il clima relazionale che ancora - a volte - emerge nei suoi "ritorni". II livello culturale raggiunto consente di dare al tutto la valenza di "testimonianza" e quindi di recuperare un patrimonio importantissimo che va scomparendo.
In "Cantavamo Contessa", la vacanza estiva in Grecia si trasforma in un ritorno in patria, in una ricerca continua e minuziosa di verifica. È il racconto di un'avventura giovanile che avrebbe po­tuto indugiare su altri temi, porre in risalto altri aspetti. Invece ricerca e fa emergere le identità di usi e costumi, di tradizioni e linguaggi, di sentimenti e reazioni, di tutto ciò che è comune alle due sponde del "canale". Il Canale di Otranto. I paesaggi si confondono e si appartengono come le mitologiche leggende ed i sapori forti del vino, delle melanzane, dei peperoncini, come il richiamo possente del mare, delle scogliere, delle ragazze, delle notti sulla spiaggia e sotto la luna. E lui, protagonista, è Japige, è Messapo che incontra non le ragazze di oggi ma Elena, Venere, non gli uo­mini contemporanei ma Achille, Ulisse. Tutta la mitologia rivive nella corpulenta ostessa e nel venditore di vino.
È il sogno di un'estate, è l'e­sperienza di un momento che di­venta occasione per radicare, nel ricordo nostalgico, il bisogno di appartenenza.

Ed ecco “Lu Nanni Orcu”.
Racconti salentini, soprattutto racconti fatti dagli amici, dai pa­renti, dai conoscenti anziani nei tempi della fanciullezza e ripetuti in tempi meno remoti; ricostruiti e appuntati come a fermare sensa­zioni e sentimenti del passato, di quel passato fatto di secoli che scorre col sangue nelle vene im­pegnando il cuore ed il cervello.
Racconti salentini che sarebbe meglio dire "dal Salento", da un Salente che scompare dalla realtà quotidiana per emergere robusto e vitale nel "testimone" e divenire documento storico. Infatti non è la trama o l'episodio che interes­sa; è il racconto come evocatore di condizioni sociali, di sentimen­ti, di sensazioni ormai desuete, di coinvolgimenti delle piccole storie nella grande Storia. È la parola come suono ed è il suono come logica, proprio come in un accordo musicale dove il significato semantico delle parole non serve.
Il ritmo con cui le parole si inseguono, si incatenano, si snodano evoca quanto urge in fondo al cuore e alla mente. Così, e lo dice lo stesso autore in premessa ai racconti, quello che conta è il suono della pa­rola.
La raccolta delle "narra­zioni di un tempo" è una composizione nella quale è inutile cercare grammatica, sintassi, fonetica perché queste non fanno più parte di quel sentire collettivo odierno che ha affogato nel ricordo nostalgico e dolcis­simo la povertà, la miseria, l'umiliazione, la discrimina­zione, non personali ma di un popolo, per trasferire tut­to e solo sugli schermi tele­visivi come fatti estranei che non toccano più i viven­ti.
Per questo ogni racconto è un quadro d'epoca, uno squarcio di vita di paese, un pezzo di cuore da esibire come gioiello di famiglia, quella collettiva, come diadema di casata, della propria gente, come blasone di un legame senti­mentale nobilissimo e profondo, questo sì personale. Perciò l'at­tenzione massima si concentra negli accenti, negli intercalari, nelle ricostruzioni dei modi di dire, nel "parlato", per far rivive­re in chiave documentaria un mondo che non c'è più nella realtà, ma che non è morto per­ché "al mio paese nessun morto è mai morto". "Lu Nanni Orcu" è un libro da leggere un poco alla volta in modo da lasciare che la fantasia lavori lentamente per ri­costruire il contesto che nasce dalla luminosa atmosfera del ri­cordo-sensazione.
Zeffirino Rizzelli
________________________________________________________



Nardò, Besa, 2001, seconda edizione





Nardò, Besa, 2008, terza edizione


Introduzione di Eugenio Imbriani, ordinario di storia delle tradizioni popolari, Università di Lecce, al volume "Lu Nanni Orcu e altri racconti salentini" di Alfredo Romano. Nuova edizione.

Chi si occupa di tradizioni popolari subisce spesso e volentieri la tentazione di cedere all’intenzione che potremmo definire “del salvataggio”. In particolare, le espressioni orali della cultura popolare sono volatili, fluide. La scrittura si configura, allora, come intervento di salvataggio dei racconti e delle notizie, delle testimonianze riferibili a un modello di vita che, nella sostanza, appartiene al passato. La scrittura risponde anche alle esigenze della comunicazione: la monografia, la restituzione della ricerca tramite il testo scritto, si muovono nella direzione di potenziali lettori per i quali scompare, di fatto, o, almeno, si appiattisce, la figura del narratore. Sicché le storie di Hansel e Grätel, di Biancaneve sono dei fratelli Grimm, che le hanno pubblicate, Il gatto con gli stivali è una fiaba di Charles Perrault molto più di quanto non appartengano, nell’accezione comune, ai narratori che gliele avevano raccontate. La narratrice di storie più famosa, Sherazade, che, per non morire, ne inventa per mille e una notte e oltre, è essa stessa il personaggio di una fiaba; ma chi raccontava questa fiaba? Delle migliaia di voci che per secoli l’hanno tramandata non ne conosciamo alcuna. Sherazade è per noi, innanzitutto, essenzialmente una parola scritta, prima di essere letta, enunciata, prima che la figura della giovane donna acquisti corpo nelle immagini cinematografiche, o televisive, o disegnate.
Il pregio maggiore della presente raccolta di fiabe salentine è, a mio parere, costituito dal fatto che l’autore di essa leghi i testi alle figure dei narratori, informatori che gli sono stati molto vicini e di cui conosciamo qualche notizia biografica, e qualche altra sul loro modo di raccontare. L’anziano Pasqualino, il nonno materno, racconta le avventure di papa Galeazzo – mitico curato cialtrone di Lucugnano vissuto, pare, nel XVII secolo, protagonista di aneddoti classificabili tra lo scherzoso e il pecoreccio –; sapeva leggere e scrivere, e allora, da giovane, leggeva nei libri le storie che la sera raccontava alle figlie accanto al caminetto; attingeva anche alle rappresentazioni che le compagnie teatrali provenienti dalla Sicilia tenevano nel frantoio di Collemeto.
La vicenda personale di Pasqualino meriterebbe di entrare nel ciclo delle narrazioni, e troverebbe degnamente posto tra i cunti del volume. Era un macellaio molto stimato a Neviano, il suo paese (siamo in provincia di Lecce); aveva sette figli di cui sei femmine e, preoccupato dalla necessità di dotarle e collocarle tutte dignitosamente, decise di investire i suoi risparmi in un affare che gli avrebbe reso moltissimo: acquistare un intero carico di asini, per venderne la carne alle macellerie di altri paesi. Si recò in Calabria, qui fece stipare in vagoni merci gli asini provenienti da diversi allevamenti. Ma quelle bestie, assiepate com’erano in uno spazio ridottissimo, si aggredirono reciprocamente a calci e morsi, tanto che, quando il treno arrivò a destinazione, ben poche erano sopravvissute, per di più malconce. Così accadde che Pasqualino, per aver voluto arricchirsi in poco tempo, perdette tutto quello che aveva, fu costretto a lasciare il paese, con la numerosa famiglia, a rimboccarsi le maniche e a ricominciare da capo.
Maria Neve, la moglie di Pasqualino, aggiungeva alla abilità narrativa una peculiare verve drammatica, per cui imitava con la voce e i gesti suoni, situazioni, personaggi, che dovevano sembrare chissà quanto più veri e chissà quanto più arcani ai giovani spettatori.
Altri narratori di primo piano sono i genitori stessi di Alfredo Romano, che esercitano la loro arte fino allo stremo. Giovannino, sul letto di morte, raccoglieva le forze per dare quel che restava di sé ai visitatori che entravano pietosi nella sua stanza di malato e se ne uscivano divertiti. Lucia dettava al figlio che, sul quaderno, trascriveva le parole, ma non poteva fissare la voce, il tono, le cadenze, gli sguardi, i gesti della madre.
La scrittura tradisce sempre la situazione narrativa. La trascrizione salva i testi, rendendoli nel contempo fissi e sottraendoli, ormai, alla dinamica sempre diversa del racconto orale. La scrittura molte cose conserva, i testi, le parole, molte altre ne perde: l’esperienza del narrante e dell’ascolto seleziona alcune parti del discorso, ne esclude altre: se i dialoghi di Romano con la madre si fossero limitati solo alla narrazione di alcune fiabe, essi si ridurrebbero a una specie di monologo a puntate complessivamente breve e piuttosto arido. La scrittura, allora, qualcosa conserva, qualcosa perde, qualcosa aggiunge; per esempio, stabilisce un ordine alle storie, interviene sui testi con dei segni di interpunzione e diacritici che ne agevolino la lettura, li dota, come in questo caso, di una godibilissima traduzione in lingua italiana.
Ma veniamo brevemente a un’altra questione: che cosa sono le fiabe, e che cosa ci dicono? Non entrerò nel merito di un dibattito tanto lungo e complesso su questi temi, che sfiorerò soltanto per fornirne un’idea.
Forse molti sanno che la narrativa di tradizione orale è stata ampiamente analizzata, sezionata, è stata oggetto di classificazione; esistono indici e repertori che scompongono i testi in motivi, i quali rappresentano le unità narrative minime, e per tipi, vale a dire, grosso modo, in base al soggetto, all’argomento che toccano.
Le migliaia di motivi che costituiscono le fiabe si mescolano variamente tra di loro, dando vita a una serie di combinazioni in teoria infinita. Poiché si tratta di testi di tradizione orale, come abbiamo già detto, nessuna fiaba narrata una seconda volta rimane perfettamente uguale alla versione precedente. I motivi viaggiano in lungo e in largo per il mondo, al seguito di mercanti, pellegrini, migranti. I motivi viaggiano anche tra la letteratura colta e la letteratura popolare, per cui non c’è da meravigliarsi di trovare nelle fiabe elementi narrativi riscontrabili, per esempio, nelle novelle di Sacchetti e di Boccaccio; per tacere di Basile che nel Pentamerone raccoglie un patrimonio di storie popolari.
Le migliaia di motivi e le centinaia di tipi riscontrabili nelle fiabe danno vita in realtà a trame molto semplici che si susseguono e si ripetono secondo sequenze e schemi abbastanza rigidi. Le migliaia di personaggi che le affollano svolgono tutto sommato poche funzioni; il grande folklorista russo Vladimir Propp, studiando le fiabe di magia, ha individuato una serie di azioni che, comunque, i personaggi compiono: c’è una situazione iniziale, il protagonista è chiamato a superare alcune prove, c’è un avversario, un aiutante magico, la soluzione. È come se nelle fiabe esistesse una sorta di meccanismo narrativo, che i novellatori hanno seguito tramandandolo nello spazio e nel tempo, rincorrendo e intrecciando i motivi. Non basta raccontare, bisogna saper raccontare, come con chiarezza suggeriscono gli stessi narratori delle storie raccolte da Alfredo Romano.
Questo universo così articolato e multiforme sembrò semplicemente indominabile a Italo Calvino chiamato a redigere la raccolta delle Fiabe italiane, uscita, poi, nel 1956. Calvino confessava allora che quell’impresa editoriale lo esponeva a una sorta di malessere che nasceva proprio dal rapporto con un elemento non formalizzato, fluido, qual è la tradizione orale. Eppure l’iniziale diffidenza svanì nel corso del lavoro, durante il quale lo scrittore si trovò immerso nella precipua logica dell’incantamento: «Ogni poco», scriveva nell’introduzione, «mi pareva che dalla scatola magica che avevo aperto, la perduta logica che governa il mondo delle fiabe si fosse scatenata, ritornando a dominare sulla terra». E continuava, parlando di un suo intimo convincimento che giustificava il motivo per cui ciò poteva accadere: cioè, che le fiabe sono vere. Costituiscono un «catalogo dei destini», una «casistica di vicende umane», un disegno sommario della vita, rappresentano «l’infinita possibilità di metamorfosi di ciò che esiste».
Possiamo immaginare la vertigine di fronte alla sterminata e prodigiosa campionatura di ciò che è narrabile, che egli aveva davanti a sé. Eppure il gioco appariva dotato di regole; come per gli scacchi i movimenti sulla scacchiera sono determinati, eppure è possibile giocare un numero infinito di partite diverse, allo stesso modo la fiaba popolare si modella su strutture fisse che consentono infinite variabili.
A tutto questo si aggiunge la peculiare abilità dei narratori, che si traduce nell’applicazione di una vera e propria tecnica della narrazione orale. Su questo concetto Calvino si soffermerà ancora nelle Lezioni americane (1988); tra i valori letterari da tramandare al nuovo millennio c’è la rapidità, e il luogo in cui meglio si esprime è proprio la narrazione orale. «La tecnica della narrazione orale nella tradizione popolare», scrive nelle Lezioni, «risponde a criteri di funzionalità: trascura i dettagli che non servono ma insiste sulle ripetizioni, per esempio quando la fiaba consiste in una serie di ostacoli da superare. Il piacere infantile di ascoltare storie sta anche nell’attesa di ciò che si ripete: situazioni, frasi, formule»; e più oltre rivelava di aver incontrato il massimo piacere quando un testo era laconico e doveva cercare di tradurlo in lingua rispettandone la concisione. Credo che Alfredo Romano, che si è cimentato nella traduzione delle sue fiabe, comprenda bene che cosa Calvino intendesse.
Eugenio Imbriani

_____________________________________________

INTRODUZIONE ALLA PRESENTAZIONE DEL VOLUME
"LU NANNI ORCU E ALTRI RACCONTI SALENTINI"

Cenate di Nardò, agosto 2001


Il bisogno di scrivere è per me vitale come il bisogno di mangiare, di respirare. I motivi possono essere tanti, ma ce n'è uno in particolare che qui, oggi, mi preme dirvi: è l'essere andato via. A 16 anni passa un caporale con un furgone stipato di facce scure e pensierose e ti porta via. Ti lasci dietro tutto: l'infanzia, gli affetti, gli amici, il primo amore. Ti lasci dietro parole, suoni, profumi, odori, la frisa, li maccarruni fatti ccasa, la ricotta schianta. Ti lasci dietro il mare.
Dopo, la vita è tutta una corsa a ricuperare, a ricordare, a non dimenticare. Si sa, si ama ciò che non si ha, e tutto ciò che hai lasciato viene relegato nel mito. Scrivere è fermare quel mito, stagliarlo sul tuo orizzonte, sulla tua identità. Restando a Collemeto, non avrei mai avuto bisogno di affermare la mia identità, ma ora mi tocca farlo, ogni giorno quasi: io vengo da Collemeto, dalla Lecce barocca, dalla Terra d'Otranto.
Succede che siano gli altri, a volte, a metterti in discussione, e tu stesso vai ripetendo: ma io chi sono? da dove vengo? Che cosa posso scambiare con quelli che parlano, mangiano, vestono e pensano diversamente da me? Ho detto bene: lo scambio. E sì, perché se non dài, nessuno ti dà niente.
Ed ecco che s'affacciano prepotentemente quelle radici che scopri millenarie, e le presenti a chi ti circonda su un piatto d'argento. Lo scambio si può fare, la ricchezza è servita. Non sono superiore, né inferiore: io ho da dare, e quindi sono! E questo grazie anche alla terra che mi ha generato.
I racconti, perché i racconti? Scriverli è stata un'idea di qualche tempo fa. Prima, per tutto il tempo, amavo dirli. Lo facevo imitando il modo di porsi, i gesti, le espressioni dei miei nonni, dei miei genitori. Mi piaceva: era anche un modo per far rivivere le persone care che non ci sono più.
I miei amici poi si divertivano tanto col nostro dialetto colorito: c'erano suoni, espressioni, movimenti facciali, parole che non avevano sentito mai. Poi sono passato al repertorio delle canzoni, tante. Insomma oggi io mi posso permettere di parlare tranquillamente in dialetto con gli amici miei, capiscono tutto. Essi stessi lo parlano a volte: naturalmente si esibiscono in quell'espressioni più curiose che sono le imprecazioni, o quelle prese dal linguaggio culinario. Il termine schiattarisciare, per es. è quello che li diverte di più: Li pummitori schiattarisciati, Ci cu tte schiatatriscia 'nu tronu, ecc.
Ma poi scriverli. Chissà, forse perché vuoi che li cunti si continuino a raccontare, che non si perdano. La vita passa come un bel vento, più avanti con gli anni anzi, sembra che abbia fretta di passare. E poi, lasciatemelo dire, di questi tempi, mi piace questo modello letterario, e cioè la scrittura che si fa racconto orale, che si fa fiaba. Quando nel dopoguerra arrivarono le prime radio, i nostri vecchi, che pure erano attratti dal comunicato, il giornale radio di allora, presero a dire che con la radio gli uomini avrebbero parlato di meno e ascoltato di più. Poi arrivò la televisione, e gli uomini, non solo avrebbero parlato di meno, ma anche ascoltato di meno: l'immagine, il guardare avrebbero preso il sopravvento. I nostri vecchi insomma non raccontano più, nessuno li sta più a sentire.
Eppure c'è un movimento di opinione, di resistenza bisogna dire, che oggi si fa strada, soprattutto nelle scuole. Sono un bibliotecario, poi, se volete, sono anche un animatore che diverte i bambini. Bene, frotte di bambini con le maestre mi vengono in biblioteca non solo per conoscere la biblioteca, ma anche per mettersi ad ascoltare o leggere qualche racconto. Quello del Nanni Orcu (naturalmente in italiano), ha avuto molto successo. I bambini, in genere con l'aria di essere degli adulti precoci, tornano finalmente bambini e si immergono piacevolmente nel mondo incantato della favola, del racconto che sia.
Si parla di infanzia negata. Ecco, credo che la scomparsa del racconto orale vi abbia dato un contributo significativo.

Da più parti sento dire che bisogna riscoprire la fiaba, perché il racconto aiuta i bambini a crescere. Al pari del mito, la fiaba ripropone temi immutabili, come il conflitto tra Bene e Male, la morte e la rinascita, l'invidia, il ribaltamento delle situazioni, la vanità, la sconfitta. Questa reltà paurosa il bambino la proietta all'esterno, e quindi può permettersi di guardarla, prenderne le distanze, di oggettivarla. Tutto ciò lo rassicura, gli permette nuovi assetti emotivi e anche nuove capacità di pensare.
Con gli spazi esigui e i ritmi serrati della nostra vita sociale però, non c'è più tempo per raccontare. E' un'occasione persa sia per i bambini che per gli adulti. Perché anche gli adulti hanno bisogno di inventare, di immaginare, di fantasticare per poi comunicare, commentare, interloquire.

Le nuove tecnologie non devono e non possono dissolvere un patrimonio orale che ha avuto un ruolo fondamentale in tutte le tappe della nostra crescita, un patrimonio di grande umanità per finire.

Alfredo Romano


1 commento:

annysea ha detto...

Carissimo Romano, complimenti per questa tua pubblicazione, sono rimasti in te i vecchi miti che dominavano la nostra infanzia e usati come deterrente dai nostri genitori per tenere quieti i bambini...anche oggi ci sono orchi tra noi, e non solo immaginari, e i nostri figli non riusciamo più a spaventarli e "ingannarli" con nulla...ne sanno una più loro che il diavolo... eppure cadono come agnelli teneri e innocenti nella rete dei "Nannuerchi" di oggi! A rileggerti. Anna