mercoledì 26 dicembre 2007

ARTICOLI APPARSI SULLA GAZZETTA FALISCA (2002-2006)

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DOMENICO COLUZZI, CHI ERA COSTUI?

di Alfredo Romano

Il sig. Emanuele Zoddi arriva in biblioteca con due valigie di cartone stracolme di documenti; la consorte regge in mano una tela dell'Ottocento sulla quale spicca il ritratto di un uomo barbuto e distinto, calvo: un aristocratico, a giudicare dai tratti; forse un garibaldino, o un autoritratto d'artista, in ogni caso una persona che doveva essere stata importante. "Chi è quel signore?" Chiedo alla donna di mezza età. "Ma, come, non sa chi sia? È stato il primo sindaco di Civita Castellana dopo l'Unità d'Italia," mi ribatte "un vostro sindaco, e che sindaco!"
Io quasi mi vergogno, né mi viene in soccorso l'immaginare che per Civita il personaggio sia un illustre sconosciuto; d'altra parte non c'è niente che lo ricordi: una targa, una via, un'istituzione a lui intitolata, neanche a dire un documento in biblioteca che ne spunti almeno il nome, niente. E già, ché le biblioteche di Civita Castellana, nei secoli passati, sono andate tutte distrutte: vuoi dai lanzichenecchi, vuoi dai francesi o dagli spagnoli; non ultimo il bombardamernto degli alleati sull'unico archivio comunale durante l'ultima guerra.
Memoria storica quasi zero insomma, se ne sa di più sui gloriosi falisci, venendoci in soccorso scavi e reperti archeologici. Certo, un considerevole numero di incunaboli e libri rari, fino al 1920, giacevano negli ammuffiti scantinati dell'edificio scolastico. Una mano pietosa si prese la briga di rimuoverli per farli restaurare nell'Abbazia di Farfa. E lì restarono.
Purtroppo, l'Amministrazione di allora, per quei volumi, non redasse neppure uno straccio d'inventario. Quindi, anni dopo, non si sono potuti neanche rivendicare. E poi, quali erano i nostri volumi? Nessuno avrebbe saputo dirlo. Incuria? Beh, non saprei come altro chiamarla.
Emanuele Zoddi e la moglie sono dei collezionisti romani, mi dicono che anni prima sono entrati in possesso di un archivio privato che era appartenuto al conte Coluzzi di Civita Castellana. Sindaco e conte. Però! Non basta. La coppia mi snocciola dati sul Coluzzi come fosse un loro antenato: il nostro è stato sindaco dal 1872 al 1892. Vent'anni. Tanto. Non era sposato, faceva del bene a tutti, i suoi figli erano i cittadini. Aveva contatti, ma anche amicizie, con molte personalità politiche d'allora. Era ricco, è vero, ma aveva soprattutto altre qualità che lo hanno fatto durare così a lungo sulla poltrona di primo cittadino. Provare a leggere i documenti per credere, asseriscono i coniugi. Ne parlano con passione mentre tirano fuori dalle valigie e spargono sul tavolo una catasta di documenti. Più di mille, dicono: ci sono manoscritti, carteggi, avvenimenti, manifesti, illustrazioni. Si tratta di documenti originali su 50 anni della vita amministrativa e politica di Civita Castellana, anni a ridosso della nostra storia recente sui quali non sappiamo un bel nulla.
E poi ancora: un album con 57 foto di personaggi civitonici e non, il Vecchio Testamento in 10 volumi del '700, e Il Napoleone in Esilio del conte Las Cases, due mega volumi del 1842-1844, impreziositi da ornati e incisioni.
Di fronte a tanta messe, come bibliotecario, mi dico: bel colpo! I civitonici saranno felici di questa scoperta, gioiranno come se fosse venuta fuori dalle viscere della loro città una Giunone in bronzo alta tre metri. Bisogna festeggiare!
Ma poi lo so, i coniugi sono dei collezionisti, hanno passione, ma anche interesse, niente è gratis, su alcuni documenti ci sono anche gli annulli postali e pure quelli costano. "Fate un preventivo" chiedo loro "e speditelo all'Amministrazione comunale."
Stendo una relazione, informo l'Amministrazione su tutto quel bendidio che ho visto. Trascorre un mese, arriva l'offerta: 150 milioni. Ahi!
Non ci sono soldi, mi dicono nel Palazzo, ma vedremo. Io ci credo che non ci sono soldi. Perché non dovrei? Trascorrono tanti altri mesi, torno alla carica, ma non ci sono soldi. Ci credo, ma tento delle proposte: si dia almeno inizio alla trattativa nominando un perito di propria fiducia; e poi il prezzo è trattabile, mi avevano confidato i coniugi. E aggiungo: magari si può acquistare un po' per volta, di anno in anno, e forse non tutto, solo quello che ci interessa.
Ma non ci sono soldi. Io ci credo. Ma allora, qualcuno più autorevole di me, oscuro bibliotecario di provincia, interessi una banca, qualche benefattore, si faccia una colletta, non so, una tombola, ma si faccia qualcosa!
Poi tento l'ultima carta, alla Totò (duetto della cammesella con Fiorella Mari in Siamo uomini o caporali) e butto là: "Aho! in fondo lo faccio per voi di Civita! Io non sono di Civita e… potrebbe fregarmene di meno." Pausa, lunga pausa, il Sindaco, come sorpreso, mi scruta, esita, vorrebbe dirmi quasi: Romano, lei è qui da una vita, forse c'è qualcosa che non ha ancora risolto nella sua identità. È vero, Sig. Sindaco, non ha tutti i torti, mi perdoni. Solo che io, da vecchio, ecco, dovrò tornare a Itaca. Adesso, adesso mi sto regalando il bel viaggio.

Civita Castellana, agosto 2002

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NEL LIBRO DI UN AUTORE POLACCO LA STORIA DELLA BATTAGLIA DI CIVITA CASTELLANA TRA NAPOLETANI E FRANCESI AVVENUTA IL 4 DICEMBRE DEL 1798

di Alfredo Romano

Alcuni anni fa, grazie al Catalogo unico delle biblioteche italiane messo in rete dal Servizio bibliotecario nazionale (Sbn), ho rintracciato nella Biblioteca dell'Istituto Gramsci di Roma un volume in lingua polacca dal titolo: Civita Castellana, 4 XII 1978, Polacy W Walce o demokratyzacje Wloch (I Polacchi per la democrazia in Italia, ndr.). Kracow, 1947. Autore Jan Lubicz Pachonski. Lo stesso volume, adesso, lo si può trovare nella biblioteca comunale tradotto in lingua italiana da Matilde Spadaro di Roma, incarico che ha avuto dall'Amministrazione comunale.
L'autore polacco, sulla base e sul confronto dei materiali storici e letterari dell'epoca, come dei diari di alcuni protagonisti, ricostruisce dettagliatamente le fasi della battaglia che avvenne intorno a Civita Castellana il 4 dicembre 1798. Contendenti: da una parte l'armata repubblicana francese capeggiata dal generale Championnet, dall'altra le truppe del Regno di Napoli con alla testa il tenente feld-maresciallo austriaco conte Karl Mack. A dare manforte ai francesi c'era un agguerrito gruppo di spedizione polacco composto di esuli che speravano, col loro contributo, di poter in seguito ottenere un aiuto dalla Francia per la libertà della Polonia, allora soggiogata e smembrata dall'Austria, dalla Prussia e dalla Russia.
Quali i motivi dello scontro? Il Regno di Napoli, con la compiacenza dell'Austria, aveva deciso di liberare lo Stato Pontificio dai francesi che a Roma avevano dato vita alla Repubblica Romana. I francesi, invece di attendere lo scontro a Roma con le truppe napoletane, che erano in soprannumero, si ritirarono strategicamente a nord di Roma e precisamente a Civita Castellana. I napoletani scambiarono questa ritirata per un segno di debolezza ed entrarono a Roma trionfalmente, perdendovi tempo prezioso a festeggiarne la liberazione da quei francesi che erano invisi al clero per le loro idee rivoluzionarie e liberali. Quel tempo servì ai francesi, invece, per meglio organizzare le proprie forze e soprattutto per scegliersi gli avamposti tatticamente migliori in vista della battaglia decisiva. Alla testa del battaglione francese che combatteva a Civita Castellana il famoso generale di divisione Macdonald, nome che spesso ricorre nei documenti storici locali. Questo il nucleo, ma teatro della battaglia, dove erano schierati i vari squadroni e battaglioni dei contendenti, erano anche le località e i paesi dei dintorni. Sulla riva destra del Tevere: Rignano, Nepi, Monterosi, Faleri Novi, Corchiano, Fabrica, Gallese, Orte, Vignanello, Caprarola, Carbognano, Ronciglione. Sulla riva sinistra: Magliano, Collevecchio, Otricoli, Ponzano.
Il volume di Pachonski descrive minuziosamente le fasi preparatorie dei due eserciti nei giorni che precedettero la battaglia e narra anche di alcuni avvenimenti tragici che si svolsero a Nepi, a Corchiano e a Fabrica, i cui abitanti, istigati dal clero, insorsero contro i francesi, ma dovettero pagare cara la rivolta, perché i loro centri furono messi a ferro e a fuoco e un gran numero di persone, anche del clero, perirono.
Le truppe napoletane, giunte quando i nemici erano ormai ben posizionati, furono costrette a collocarsi in luoghi strategicamente poco propizi per la battaglia, per non dire che il loro comandante Mack commise anche degli errori di valutazione sulla forza e la tattica usata dai francesi. Il 4 dicembre del 1798 avvenne la battaglia decisiva. Pachonski la descrive nei minimi particolari, usando il linguaggio di un vero stratega militare. La vittoria fu dei francesi, ma fu merito anche dei polacchi, e questo spiega l'interesse dell'autore per le vicende narrate, e spiega anche il sottotitolo "I polacchi per la democrazia in Italia", quasi a dire che i polacchi si batterono in Italia per le libertà civili contro la reazione clericale.
Il lettore di Civita Castellana troverà nel libro nomi e luoghi familiari, non solo di paesi ma anche di località, fossi, fiumi, torrenti. Un libro quindi non solo di curiosità storica ma anche geografica. Per finire, quattro mappe, nel libro, aiutano il lettore a capire la posizione dei battaglioni e degli squadroni dei contendenti.


Civita Castellana, gennaio 2003

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QUANDO A CIVITA CASTELLANA C'ERANO GLI ANTICLERICALI DELLA "GIORDANO BRUNO"

di Alfredo Romano

Un tempo, nei primi anni del Novecento, c'era a Civita Castellana una sezione intitolata a Giordano Bruno, grande filosofo, condannato dal Tribunale dell'Inquisizione e arso vivo il 17 gennaio del 1600 in Campo dei Fiori a Roma. Si trattava di una sezione d'ispirazione anticlericale cui facevano riferimento i numerosi socialisti della città. La ghiotta notizia ci viene data da un libro raro, conservato nella biblioteca comunale, dal titolo: I fatti di Lourdes: resoconto stenografico del contraddittorio tenuto il 17 novembre 1912 a Civita Castellana (Roma) tra il P. Pellegrino Paoli e l’on. G. Podrecca. I tipi sono della Libreria Editrice Fiorentina, Firenze, 1913. Chi erano Padre Paoli e l’on. Podrecca? Il primo era un francescano di Lucca che andava in giro per l’Italia a tenere conferenze sulla scientificità dei miracoli di Lourdes; il secondo, invece, era, a detta dello stesso Paoli, “il più genuino rappresentante dell’anticlericalismo italiano […] l’uomo che […] conduce in tutta Italia una campagna volgare contro Lourdes ed i suoi miracoli” . Il volume riporta, è vero, il testo stenografico del contraddittorio, ma l’introduzione, le note e i commenti sono del Paoli, che così può riservarsi giudizi e punti di vista questa volta senza possibilità di smentita. I fatti. Dal 20 ottobre al primo di novembre del 1912, il Paoli aveva svolto una serie di conferenze, a sua detta di carattere scientifico-religioso, nella Sala Teatro della Direzione Diocesana di Civita Castellana, invitato dal Vescovo Mons. A. Giacomo Ghezzi. Pare che ogni sera accorressero alle conferenze numerosi operai, studenti e professionisti e “questo fatto aveva urtato i nervi del socialismo locale e di una certa sezione della G. Bruno” dice sempre il Paoli. Il tema era: I fatti di Lourdes e la loro interpretazione. Evidentemente la cosa non andò giù ai nostri civitonici della Giordano Bruno che, ovviamente, non credevano ai miracoli. Fu organizzato perciò un contraddittorio tra Padre Paoli e l’on. Podrecca che si tenne nella sala del Municipio. Vi assistettero 400 persone: metà cattolici e metà anticlericali. Ma, fuori del palazzo comunale, era rimasta un affollato numero di persone che non avevano trovato posto in sala. Sotto la presidenza dell’allora Sindaco, il commendatore Ulderico Midossi, era stato composto un Giurì: per parte cattolica rappresentato dall’avvocato Pierantoni e dal pubblicista Alfredo Proia; per parte anticlericale dagli avvocati Nicola D’Angelo e Amilcare Rispoli. Riportiamo fedelmente due brani tra i più significativi del contraddittorio.

On. Podrecca. “[…] Veda, egregio contraddittore (si rivolge al Paoli, ndr.), ella s’è affidato completamente alle relazioni sulla materia. Io sono un povero positivista, uno del pubblico che, ascoltando un’opera musicale, dice: mi piace o non mi piace, e secondo il caso applaude o fischia. Finora, tutto questo trucco, che la Chiesa ha abilmente architettato per sfruttare l’ignoranza delle plebi, è degno dei fischi! Ma io ci sono andato da modesto positivista, mi sono recato su i luoghi per cercare di constatare con i miei occhi, sia pure grossolanamente, quanto si va strombazzando dalla Chiesa. È così, sempre, in seno al mio partito, al quale ho dato le mie energie e per le comuni idealità, quando ho sentito la necessità della nostra espansione coloniale, ho sentito anche il bisogno di andare in Libia, in Cirenaica e nell’Egeo, e quello che dico lo affermo con piena coscienza. Ma mi meraviglio veramente che lei, un sacerdote, non sia andato a Lourdes e che ci sia andato il profano! Io ho sentito di andare a Lourdes, perché io studio non soltanto il Cattolicesimo ma la religione di tutti i popoli, che è un fenomeno ben più alto, più vasto, più commovente di quello che non sia un povero contraddittorio fissato qui tra due guido-vie. Non è la Madonna che preme a Lourdes, sono gli enormi incassi che vi si fanno, ed io vi darò la dimostrazione coi fatti alla mano. […]”.

Padre Paoli. “[…] Intanto, per prima cosa, egli ha detto che il pubblico qui presente non è alla portata dei fatti che io ho riferito, per poter controllarne, s’intende, la verità. Egli ha creduto d’avere espresso un’idea luminosa, ma non ha affermato che un paradosso. Il pubblico stesso non può accettarlo, giacché il pubblico sa che non è necessario che io veda da me, coi miei occhi, un fatto, quando questo fatto appartiene alla storia e chiunque può constatarlo purché abbia l’integrità dei suoi sensi. Se io non ho veduto, altri hanno visto per me! A Londra, ad esempio, io non sono mai stato: potrei, solo per questo, negare che esista Londra? Così dei fatti di Lourdes. Io non ho assistito al miracolo, non ho constatato personalmente i fatti, ma i fatti sono pubblici, ed io ho citato dei testimoni contro i quali nessun serio argomento ha saputo portare l’on. Podrecca. […] Ai fatti si crede sempre! Quando i fatti sono testimoniati da persone oneste ed insospettabili, sino da medici materialisti, come nel caso nostro, quando i fatti sono accettati da uomini che non dividono la mia fede nel soprannaturale […]”.
Il contraddittorio è lungo, vi sono anche delle repliche. Dell’evento si occuparono alcuni quotidiani dell’epoca: Il Corriere d’Italia, Il Giornale d’Italia,La Tribuna, Il Messaggero e La Vedetta di Viterbo. Anche alcuni periodici: Il Mulo eL’Asino. I giornali, naturalmente, si schierarono a favore dell’una o dell’altra tesi: Il Messaggero, per es., per quella dell’on. Podrecca, mentre Il Corriere d’Italia per quella di Padre Paoli. Il volume è di estremo interesse: ne viene fuori il clima religioso e politico che si respirava all’epoca non solo a Civita Castellana, ma anche nel resto d’Italia. Erano i tempi in cui essere socialisti era come dire mangiapreti; essere cattolici, invece, contrari a quelle idee rivoluzionarie di riscatto sociale che si affacciavano negli strati meno abbienti della popolazione. In ogni modo la notizia più sorprendente che si ricava dal volume è che a Civita Castellana, nel 1912, c'era una sezione anticlericale intitolata a Giordano Bruno. Ci svela, oltretutto, che questi civitonici devono avere nel loro sangue qualche DNA laico che viene da molto lontano.

Civita Castellana, febbraio 2003

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I "BRIGANTI" GILDO E ANTONIO E LA STRANA FUGA DI GASPARONE DAL FORTE SANGALLO

di Alfredo Romano

L'incontro con Gildo Cecchini, l'esponente più "matto" di un collaudato gruppo del carnevale civitonico che quest'anno ha come tema "I briganti", avviene nella sua bottega di barbiere. Gildo lo è da anni e anni. Ha esordito esercitandosi in quel di Terrano sulle teste di noi leccesi ancora adolescenti: perciò, personalmente, ce l'ho in carico da una vita. Come tutti i barbieri ha l'estro dell'artista: suona la chitarra tra un cliente e l'altro e non manca di divertirci proponendoci canzoni dove le rime finiscono quasi sempre in oni, uli, ica, ette, azo, ecc. E già, perché Gildo, come si dice, ci-ha la fissa e non manca di solleticarci con ritratti alle pareti di corpi di ben fatte fanciulle. Ma gli farei torto se non ricordassi che Gildo è anche uno scultore. E rinomato anche. Andate di lunedì in riva al Treia: lo troverete sul greto del fiume a scolpire grossi massi tufacei. Sono così inconsuete le sue sculture che, a volte, di notte, gliele portano via. Ma lui non si scompone, sa che comunque vanno a fare bella mostra nel giardino di qualche danaroso. Grazie a lui, Legata (il nome della riva) è diventato il luogo più ameno dell'estate civitonica, la "spiaggia" di chi non ama il carnaio da riviera romagnola.
Sotto la forbice di Gildo stavolta c'è Antonio Braconi, un altro del "gruppo folkloristico" come i due amano chiamarlo. Ne fanno parte una ventina di uomini che, all'insegna del divertimento, da dieci anni sfilano per le vie di Civita Castellana mietendo premi a tutto spiano: tre volte sono arrivati primi, e poi quasi sempre secondi o terzi. Il successo se lo meritano, perché la fatica di costruirsi un carro e inventarsi i costumi inizia quattro mesi prima della sfilata. Si ritrovano tre volte a settimana dopo le nove di sera in un capannone preso in affitto, e lì, sfruttando ognuno le proprie doti artistiche e manuali, tirano fuori macchine e congegni davvero geniali, tanto geniali che non mancano in seguito richieste di acquisto al mercato dei carri allegorici. Confessano, Gildo e Antonio, che poi tutta questa fatica di preparare il carro non esiste, perché sarà pure eccitante il giorno della sfilata, ma è bello anche, per quattro mesi, ritrovarsi di sera tra amici: si inventa, si crea, ma poi finisce che si scherza, ci si sfotte, si fanno le battute, si beve qualcosa. Vengono fuori alcuni nomi: Ottavio Biondi, Aldo Braconi, Franco Soli, Gigi De Angelis, Franco Sciarrini, Franco Norbiato, un certo Vaccarelli, e poi Tommaso, Francesco.
Ma come mai quest'anno la scelta cade sui briganti? Si vuole ricordare, tra tutti, il famoso brigante Gasparone. Per quanto ne so, nei documenti c'è scritto che Gasparone fu catturato e condotto in prigione nel Forte Sangallo dove scontò 60 anni di pena, e che nel 1878 fu liberato per la sua eccellente condotta. Gildo e Antonio, però, mi danno sorprendentemente un'altra versione. Insomma a Civita si dice che il brigante se ne fuggì da solo e non fu liberato per niente. E come fuggì? La chiamano la "Fuga della pagnotta": Gasparone, dopo essersi calato da una finestra per poi raggiungere il fosso sottostante e nascondersi alla vista delle guardie, pensò bene di scivolare per un sentiero scosceso del fosso aiutandosi con una pagnotta di pane messa là in culo (proprio così), lo sfregamento, se no, glielo avrebbe maciullato. Questa fuga rocambolesca veniva raccontata, testimoniano Gildo ed Antonio, da quelle due sorelle che anni addietro vendevano frutta al mercato e che erano le zie di Serafino Scarponi, barbiere anche lui.
Il carro che ha avuto più successo è stato quello degli "Indiani a cavallo", quattro anni fa. C'erano perfino dei giapponesi che erano diventati matti a voler scoprire i congegni che muovevano il cavallo-carro e per fotografarlo si spingevano fin sotto la pancia. Ormai il gruppo si è guadagnato una certa notorietà, tanto che viene chiamato in trasferta: Campagnano, Ladispoli, Tarquinia, Nepi e Roma dove si sono esibiti con le bici d'epoca.
E veniamo alla nota spese, nota dolente. Fare un carro costa: ogni anno se ne vanno anche 36 milioni di lire. E a questo punto Gildo e Antonio si fanno latori di una proposta per l'Assessore allo Sport Angeletti, degna di essere presa in considerazione. Si tratta di questo: la spesa maggiore, per ciascun gruppo, è quella di sostenere annualmente l'affitto di un magazzino, un vero e proprio laboratorio di idee e manualità in vista della sfilata. L'Amministrazione comunale, da par suo, ogni anno sopporta una spesa non indifferente da dividere in premi per i gruppi migliori. "Non sarebbe meglio, invece, che si accollasse le spese di affitto di un grande capannone da dare in gestione ai primi 10 classificati? I vincitori, a questo punto, si accontenterebbero anche di un premio simbolico e non necessariamente in denaro. Ci sono tante fabbriche dismesse, perché non dar vita a una struttura stabile per il carnevale civitonico? La verità è che tutto è lasciato all'improvvisazione di ognuno di noi" rincarano i nostri "e manca a Civita una politica per il carnevale, che poi è l'unica cosa bella che c'è a Civita Castellana".
E come va con l'alcool durante le sfilate? Finiranno queste ambulanze che danno i brividi sul più bello della festa? "Noi siamo di un'altra generazione, per quanto ci riguarda abbiamo fatto uso sempre di vino, e al solo scopo di stare allegri. Da pochi anni a questa parte, invece, alcuni giovani usano costruirsi le "bombe", cioè una miscela pericolosa di pasticche e superalcolici. Ma così non si sta allegri, così uno si fa solo del male e non si diverte certo. E purtroppo neanche la gente si diverte!".


Civita Castellana, febbraio 2003

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INTERVISTA A CÉLINE E THIBAULT, DUE GIOVANI BELGI DA POCO RESIDENTI A CIVITA CASTELLANA

di Alfredo Romano

Lei si chiama Céline, lui Thibault. Da alcuni mesi risiedono a Civita Castellana, nel centro storico. A differenza dei tanti immigrati che arrivano da noi dal sud e dall'est del mondo, loro sono comunitari, provengono dal Belgio, valloni, di lingua e cultura francese. Li ho conosciuti in biblioteca, dove s'intrattengono ore intere a leggere, a studiare, a visionare film italiani o nell'uso del computer per internet o per scrivere un documento. Quel che mi ha colpito di loro è la discrezione: entrano ed escono senza farsi notare, non parlano ad alta voce, non usano il telefonino, chiedono le cose con cortesia, insomma gli utenti ideali per un bibliotecario. A Natale si sono presentati con una scatola di squisiti cioccolatini belgi accompagnandoli con un: "E' per voi, per la vostra disponibilità!" "Dovere", abbiamo risposto, ma inutile, abbiamo "dovuto" trangugiarli lo stesso. Ho ricambiato con tre bottiglie di vino della mia cantina: hanno gradito. A proposito, ricevono la Gazzetta Falisca e la leggono con curiosità, apprezzano che in ogni numero si dibatta un tema cittadino, sicché sono stato a trovarli per un'intervista e, timidamente, hanno accettato. Chissà, forse potremo aggiungere un'altra pagina del Gran Tour a tutte quelle scritte da tanti artisti e scrittori passati nei secoli da Civita Castellana.

Che cosa vi ha spinto a venire a Civita Castellana?

Céline: Finita l’università, prima di inserirci nel mondo del lavoro, volevamo fare insieme una bella esperienza, incontrare nuovi modi di vivere e di pensare. Io ho studiato lingua e letteratura romanza, poi ho fatto una specializzazione per insegnante di madrelingua francese per stranieri. L’occasione per venire a insegnarla qui a Civita Castellana ci è stata data, nell’ambito di uno scambio europeo, dal progetto Socrates.

Qual è stato l’impatto con questo paese? Quali sono state le prime impressioni?

Thibault: Siamo arrivati a Civita con la mia vecchia auto. Quando siamo entrati in città per la prima volta, dopo tanti chilometri, c’è stata una meravigliosa scoperta. La via di Nepi con i suoi alberi, il Ponte, il Forte Sangallo, subito dopo il Duomo e la sua piazza… per non parlare proprio del paese. Non ci aspettavamo tante bellezze prima di venire.

Quali sensazioni vi ha suscitato il centro storico con le sue chiese, i palazzi, i monumenti?

T: Li abbiamo trovati tutti molto belli e interessanti. Hanno suscitato in noi la voglia di saperne di più. Abbiamo anche fatto venire qua i nostri amici e genitori per fare una visita alla città. Pur con tutto il rumore o l’onnipresenza delle auto nel centro storico, cantiamo anche noi in ogni caso le bellezze di Civita. Ci sono dei monumenti, tuttavia, che sembrano lasciati un po’ a se stessi e senza cura. Ma crediamo che il centro storico sia vivace, soprattutto quando viene l’ora della passeggiata… Quel che abbiamo capito è che questo paese sia incerto sul da farsi per cercare di conciliare patrimonio e modernità. Il dibattito non sembra facile…
Come trovate il paesaggio d'intorno? Lo avete esplorato? Se sì, vi è stato facile? Trovate che i civitonici abbiano cura delle loro bellezze architettoniche e paesaggistiche? Avreste dei rilievi da fare? Delle proposte?

T: Bellissimo. E’ molto diverso da tutto quel che conoscevamo! Tanti artisti si sono fatti i cantori di queste bellezze naturali, dall’antichità ad oggi. Cosa possiamo dire oppure dipingere di più ? Però, non ho potuto trovare mai il sentiero che scende nelle forre del Rio Maggiore per ammirare Civita dal punto di vista di Corot… Purtroppo, non troverò più il soggetto dei suoi dipinti. Allora non c’era tanto inquinamento nei fossi: adesso invece ci sono lattine, rifiuti vari e un odore sgradevole che viene dal fiume. Abbiamo notato noi stessi, a carnevale, al passaggio della sfilata sul ponte, lanci di bottiglie e altri oggetti giù nel fosso... Anche il sentiero verso la Porta Lanciana e Santa Maria delle Piagge è brutto. Mi sono storto anche un piede scendendo allo scopo di praticare un po’ di footing nella splendida gola. Per non parlare dei cani e delle strade private… Avremmo voluto per esempio visitare la bella necropoli di Terrano, però è tutta proprietà privata e non ci è stato consentito. Non è questione che ci siano difficoltà a esplorare l’ambiente, è che mi sembra proprio inaccessibile! Eppure ho visto begli esempi a Nepi o a Ronciglione dove è più tranquillo fare una passeggiata per le strade della città e fuori nelle forre! Civita Castellana, con i suoi begli alberghi, potrebbe essere una bellissima tappa turistica alle porte di Roma, però mancano le strutture adeguate per trattenere il visitatore più a lungo…

Che impressione vi ha fatto la gente del paese? Siete riusciti ad allacciare delle amicizie?

T: È molto gentile. Tutti rispondono al nostro saluto. Da noi non siamo abituati a questo calore, alle parole scambiate da finestra a finestra, a sentire l'odore di cucina per strada, a ricevere dei complimenti. Basta vivere il carnevale, andare alle diverse iniziative, o semplicemente fare una passeggiata per sentire la gioia della gente… All’inizio, era un po’ difficile allacciare delle amicizie, ma poi, grazie a qualcuno, anche noi ci siamo aperti un po’ di più, ci siamo un po’ adattati…

Quale luogo frequentate di più nel tempo libero? E perché?

T: La palestra per muoversi e incontrare delle persone. Abbiamo ricominciato a fare judo e danza. Poi la biblioteca, ottimo mezzo per tenersi informati, oppure per comunicare con gli amici del mondo via Internet. È ricca di libri diversi su qualsiasi argomento. Ci aiuta ad imparare l’italiano. Dalle nostre parti non abbiamo tanta buona qualità nelle biblioteche comunali.

Ci sono altre possibilità di svago per voi qui?

T: Ci piace uscire un po’ la sera, ma non ci sono tanti pub. Il cinema non propone una scelta importante, solamente dei film del box-office e mai in versione originale, ma solo in italiano… È molto difficile andare la sera a Roma: c'è il problema del parcheggio. È vero che siamo abituati a più scelte di svago, però la quantità non sempre significa qualità… Andiamo a cena da un amico e l’altro, scopriamo i sapori e i vini italiani, facciamo dei giochi diversi, e poi leggiamo molto! Ci piace anche andare in giro per tutta l’Italia.

E' luogo comune, all'estero, che l'Italia sia il paese del sole: è così anche per voi?

C: Tutti i luoghi comuni non sono falsi! La pioggia è per il Belgio ciò che è il sole per l’Italia…

Come siamo messi con la lingua italiana, vi riesce facile comunicare?

C: Io avevo studiato l’italiano prima di venire, potevo leggere un testo italiano e conoscevo abbastanza bene la grammatica, però non capivo la televisione italiana…

T: Io non l’avevo mai studiato prima di venire in ottobre, solo un pochino il mese prima. All’inizio era fastidioso non poter capire la televisione, chiedetelo ai nostri gentili ospiti! Adesso va meglio e possiamo comprendere la gran parte dei programmi… almeno la lingua! (non il contenuto!!!).

Avete scoperto qualche autore del cinema e della letteratura italiana?

T: Eh sì! Stiamo esplorando la lista dei film e documentari del cinema italiano disponibile nella biblioteca. Alcuni sono molto interessanti e in questa situazione mondiale conservano la loro attualità… Poi io sono uno storico e mi piace molto la storia antica italiana: ho letto parecchi manuali sulla storia etrusca e falisca, la storia romana… Anche il giornale è una tappa quasi quotidiana, non manca un po’ di letteratura.

C: A me piace la letteratura italiana. È un piacere scoprirla in Italia e in italiano. Però, ci sono così tanti libri che non è possibile leggerli tutti…

Credevate forse d'incontrare una maggiore diffusione della lingua francese qui a Civita?

C: Non proprio. Ci piace sentire la gente dire qualche frase in francese, come “les jeux sont faits !” (i giochi sono fatti, ndr.). Notiamo che a scuola molti bambini studiano il francese e che parecchi anziani l’hanno studiato. In ogni modo, siamo venuti anche per imparare la lingua italiana. Siamo belgi, non abbiamo la pretesa di trovare il francese dovunque.

Avete imparato qualche espressione del dialetto civitonico?

T: È sempre difficile capire i civitonici quando parlano tra loro, come per esempio nello spettacolo "Romulus e Remus" dato alla Sala Cicuti. Tuttavia i gesti ci aiutano a capire meglio le parole… È una bella cosa che in Italia i dialetti si sono conservati, tra l'altro abbiamo notato che agli italiani di tutte le regioni non rimane difficile capirsi. In Belgio i dialetti sono quasi tutti morti adesso, peccato!, visto che si tratta di una ricchezza culturale.
Come trovate la cucina italiana? Quali piatti avete scoperto, in particolare della cucina civitonica?

C: A noi piace molto il ben mangiare. Non abbiamo troppo denaro per andare nei grandi ristoranti però ci facciamo da mangiare con i prodotti acquistati dal fruttivendolo, dal pescivendolo, dal macellaio: tutti ci danno dei consigli per cucinare questa e quella cosa. Da noi, si sta perdendo l’abitudine di andare per negozi e stiamo dimenticando il vero gusto dei sapori, peccato! Qui il supermercato non ha ancora soverchiato i negozi e ci sta bene. Poi, qualche trattoria ci ha fatto scoprire e assaggiare alcune specialità. Non c'è solo la pasta insomma!

Vi piace lavorare qui a Civita Castellana? E se sì, sareste disposti a restarci per sempre?

T: Ah, ci sembra un po’ difficile. Io qui non ho un lavoro, sono di passaggio: questo però mi permette di occupare il mio tempo libero imparando e facendo cose che mi piacciono.. Certo, senza un impiego non è semplice costruirsi una vita… Spero un giorno di poter insegnare oppure darmi al giornalismo: in Belgio non sarebbe difficile, qui non ho ancora avuto nessun contatto.

C: Di più, qui stiamo vivendo una bella esperienza ed era ciò che cercavamo venendo qua, non certamente per restare. In Belgio resta la famiglia e ci sono gli amici di lunga data. Ma torneremo conservando la gente, la montagna, il patrimonio culturale e Roma nel cuore.

Stando qui, cosa vi manca di più del vostro paese?

C: I nostri amici continuano ad organizzare tante belle feste lassù: un carnevale di qua, un matrimonio di là. Li abbiamo sempre in mente e nel cuore c'è la famiglia.

Una volta tornati in Belgio, cosa rimpiangerete di Civita Castellana?

T: Se l’esperienza continua ad essere sempre così bella, allora sarà un po’ difficile lasciare tutte le belle cose fatte qui. Certo che la bellezza del paese, il sole e la vicinanza con Roma li rimpiangeremo! Poi tutta la gente che abbiamo incontrato. Ma è questo il viaggio: scoprire e poi lasciare. Lo sappiamo, ma non sarà facile. Le monde est un village (il mondo è paese, ndr.). Tutti vanno da qualche parte!

In bocca al lupo!

Anche a Civita e grazie!

[1] I belgi si dividono in due gruppi etnici: valloni e fiamminghi. I primi sono di lingua e cultura francese, i secondi germanica.

Civita Castellana, marzo 2003

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LA NOSTRA CITTÀ PAGA LO SCOTTO DI UNA PERSISTENTE CARENZA CULTURALE

TEATRO A CIVITA, QUESTO SCONOSCIUTO

di Alfredo Romano

A Canale Monterano, frazione di Oriolo Romano, con i miei amici Giuseppe, il regista, e Mario, il percussionista, arriviamo alcune ore prima della rappresentazione per sistemare la scenografia e fare le prove di acustica: stasera la mia compagnia, Il Teatro delle Meraviglie, dà "Una fanciulla di nome Willie". L'edificio moderno ospita la biblioteca, il teatro e altre sale polivalenti. Visto dall'esterno non dà l'idea di una struttura complessa, ma, varcato l'ingresso, ecco per incanto aprirsi spazi enormi e attrezzati per conferenze, esposizioni, concerti, con tanto di servizi igienici, camerini per gli attori, perfino un angolo bar. Ma è l'ingresso nel teatro che mi fa restare a bocca aperta: una gradinata su cui stanno fissate 200 sedie di colore rosso scende verso il palcoscenico dotato di tende, quinte, fari di ogni tipo, microfoni fissi e pendenti. Finalmente si recita e quando i primi attori Sergio e Nicoletta fanno ingresso sul palco, le loro voci si avvertono e si godono in ogni sfumatura, perfino il respiro; la mia chitarra, nelle mani di Giuseppe, non si era mai espressa con tale persuasione e soavità; il gioco delle luci, abilmente manovrate dal nostro Angelo, rende le scene talmente surreali che ti viene voglia di salire sul palco e toccare con mano la sublime finzione. Questo é il teatro, mi sono detto, lo avevano capito anche i greci che ricavavano le cavee solo sui pendii che assicuravano una perfetta acustica.
Ma a che serve il teatro? Intendo dire il teatro come luogo, come spazio. Beh, se i greci nel fondare una città cominciavano dal tempio e dal teatro, una ragione ci doveva pur essere: il teatro e il tempio come luoghi in cui la comunità rappresentava ed evocava tutti gli aspetti della propria storia, della propria vita, i miti, le credenze religiose e fantastiche, i racconti epici.
Paradossalmente, mentre le chiese ancora oggi assolvono alla stessa funzione che aveva una volta il tempio, il teatro è stato per così dire "laicizzato", non conserva più la vecchia sacralità, la sua presenza non è più indispensabile. È diventato, invece, luogo ameno per attori e registi che hanno il vezzo del palcoscenico, esseri "diversi" o "maledetti" che non hanno alcuna influenza nella vita sociale. Per di più, per andare a teatro oggi si paga pure, è un lusso quindi, roba che gli antichi greci venivano pagati per andare a teatro, perché, come nel tempio, anche nel teatro una comunità, nell'evocare se stessa in tutti i suoi aspetti tragici e comici, si salvava, si purificava: la sospirata catarsi insomma. I sacerdoti del tempio oggi resistono ancora, ma che fine hanno fatto quelli del teatro?
Ma… Ma… Canale Monterano fa eccezione? Non proprio, più vado in giro e più mi accorgo che nei piccoli paesi le sale teatro regnano ancora: si recuperano vecchi edifici, oppure si edificano di nuovi: sarà perché lì vige ancora il senso della comunità e dell'appartenenza. Sono gli amministratori naturalmente che se ne fanno carico, come si fanno carico delle scuole, dell'ospedale, delle strade, ecc. Eccoli allora i sacerdoti del teatro, sono gli amministratori, che, oltre ad assicurare ai cittadini le strutture primarie, hanno anche il compito di educare: vedi biblioteche, teatri, attrezzature sportive, tutte cose che non sono un di più, ma altrettanto necessarie, perché, credetemi, ci si ammala prima nell'anima e il corpo fa presto a seguirla; e un sindaco deve avere a cuore la salute fisica e mentale dei suoi cittadini e non limitarsi soltanto a costruire varianti, strade, esigere tasse, creare parcheggi e sensi unici. Ci sono delle priorità? Ma dove sta scritto che una strada viene prima del teatro o di una palestra, o di una ludoteca per bambini, o di un giardino pubblico?
E la nostra Civita Castellana? Vi ho messo piede per la prima volta nel 1965, non mi fu difficile entrare in quel movimento giovanile di allora che chiedeva spazi per la collettività, per quel sapere che doveva essere di tutti senza distinzione di classe. Ottenemmo la biblioteca: non fu una cosa semplice, ma eravamo un gruppo agguerrito, facevamo opinione, convinti che avere un lavoro non bastasse e che l'operaio, per il suo riscatto sociale, dovesse conoscere mille parole come il padrone. "… Anche l'operaio vuole il figlio dottore" cantava Pietrangeli.
E il teatro? Niente, per tutti questi lunghi anni abbiamo e continuiamo ancora a elemosinare un teatro. La Sala Cicuti? Quella non è un teatro, semplicemente perché non ha alcun criterio acustico, perché a recitare su quel palco ci si danna. Eppure, dicono, ci vorrebbe poco, un altro sforzo: una serie di quinte sul palco, fari e microfoni più adeguati, una gradinata costruita anche con tubi innocenti e una serie di poltrone che non siano quelle sedie di plastica bianche buone per i pic-nic. Tra l'altro la sala funzionerebbe anche per conferenze, per seminari, convegni, manifestazioni, concerti. Teatro per modo di dire perciò, in realtà una sala polivalente che i cittadini invocano da una vita, una sala dove la città intera possa rappresentarsi.
Sono sincero: a Canale Monterano, per quel teatro, ho provato invidia: perché a Civita no? Fabrica di Roma, Nepi, Rignano, Magliano, Vallerano, Vasanello (tanto per citare alcuni paesi limitrofi) hanno un teatro: perché Civita no? Eppure la nostra città è la più ricca del Viterbese. Sarà forse per questo? Il benessere avrebbe forse smorzato ogni sensibilità culturale?: stamo bene e nun ce ne frega niente?
È pur vero che l'imprenditoria ceramica, fin dagli anni 50, ha sottratto a questa città la maggior parte delle risorse intellettuali. Per non dire che il miraggio di un salario immediato, appena finita la scuola dell'obbligo, ha spinto tanti ragazzi ad abbandonare gli studi. Non meraviglia che le scuole superiori siano arrivate a Civita con forte ritardo e tutte come succursali di Viterbo, Orte, o Rignano. Il fenomeno non è nuovo, è esattamente quello che sta succedendo da alcuni anni nel Nord-Est Italia che pullula di piccole e medie industrie: perché studiare quando in pochi anni avrò già la mia bella moto o auto alla moda per caricarmi le ragazze, e i soldi per tutti i divertimenti che voglio? Ma ora i nodi stanno venendo al pettine: gli ingegneri, per fare un esempio, li prendiamo dall'Est europeo.
Venendo a Civita Castellana, se è vero che la città ha aumentato il suo reddito medio come nessun altro paese nella provincia, è pur vero che, di pari passo, non è cresciuta una classe colta in grado di reggere le sorti politiche e amministrative di un capoluogo di distretto industriale come Civita. E quando dico colta, non intendo necessariamente il titolo di studio, che da solo non è una garanzia, ma voglio dire aperta, illuminata, che guarda al futuro. Succede così che, fatte alcune eccezioni, non sempre sono i migliori a farsi avanti o sono scelti per il governo della città, ma solo quelli che nascondono interessi estranei al bene comune e cadono nella trappola del consenso elettorale a tutti i costi. A volte si ha l'impressione che le persone più adatte abbiano paura di "sporcarsi le mani", in questo modo si dà spazio ai mediocri che, a loro volta, si circondano di altri mediocri. Diceva don Lorenzo Milani che a fare le strade o a mettere i lampioni in una città sono buoni tutti, fossero di destra o di sinistra. Ma a chi amministra si chiede di più: si chiede un salto di qualità nella gestione dei servizi sociali, si chiede di rivitalizzare il centro storico, di investire in attività connesse al tempo libero quali sport e cultura, si chiede, (altra nota dolens) maggiore capacità nella richiesta di finanziamenti. Se la ceramica è il motore dell'economia civitonica, ciò non può essere un alibi per non tendere l'orecchio ad altri motori dell'economia. E se per disgrazia (facciamo gli scongiuri) la ceramica non tirasse più? Civita ha tante di quelle bellezze naturali e artistiche che aspettano solo di essere promosse all'attenzione di un turismo più vasto e colto quale di sta facendo strada da alcuni anni a questa parte. Diversificare l'offerta economica insomma e non limitarsi solo al prodotto ceramico. Governare, lo so, non è una cosa facile, ma quando c'è trasparenza, almeno, e onestà intellettuale, i cittadini sono disposti a capire e perfino a perdonare delle lacune amministrative.
Voi direte: ma tutto questo che c'entra col teatro che non c'è? No, il teatro è solo la spia di una insensibilità culturale, in ogni caso mi piacerebbe che si aprisse un dibattito sull'argomento: mi sia concesso, qui, di lanciare il sasso. Sinceramente, per il teatro, basterebbe che qualcuno, sindaco, assessore o funzionario che fosse, si svegliasse una mattina e dicesse: Voglio fare un bel regalo alla mia città: entro 30 giorni faremo della Sala Cicuti un centro polivalente come si deve! Vedete? basterebbe poco. Invece succede sempre come al prete in automobile che non sa cambiare una gomma bucata. Chissà, dice Luigi Tenco, forse perché lui pensa sempre a grandi cose fatte solo di eternità.

Civita Castellana, n.8, giugno-luglio 2003

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"NON PAGO DI LEGGERE"

di Alfredo Romano

Un fulmine a ciel sereno! Una direttiva europea stabilisce che per ogni libro preso in prestito in biblioteca, si debba pagare un ticket. Dopo i tiket sulla salute, sulle autostrade, nei parcheggi, al mare, in montagna (fra poco anche per fare all'amore), eccoti quello sul prestito dei libri. Si tratta di una vecchia direttiva che il governo italiano aveva già recepito nel '96, stabilendo però di escludere dal ticket le 12 mila biblioteche statali e comunali su 15 mila presenti in Italia. Ma si dà il caso che la Corte di Giustizia comunitaria sia tornata sull'argomento e abbia deciso che non ci sono eccezioni: tutte le biblioteche, anche quella nostra di Civita Castellana quindi, dovranno far pagare il ticket sul prestito dei libri.
Pagheranno gli utenti singolarmente, oppure direttamente l'Ente Locale? Nel primo caso la conseguenza sarà una diminuzione drastica del prestito, nel secondo il ticket graverà sul bilancio del Comune, che si vedrà costretto a ridurre il budget destinato alla biblioteca.
E dire che noi bibliotecari facciamo di tutto per invogliare i cittadini alla lettura, soprattutto i ragazzi, col dire che leggere significa avventurarsi in un viaggio meraviglioso e fantastico che, oltre al piacere, ci dona l'esperienza creativa dell'autore, la sua visione del mondo, il suo patrimonio di conoscenze, il suo linguaggio, il suo stile. Leggere significa informarsi sulle cose del mondo e di quel che ci accade intorno, diventare cittadini consapevoli dei nostri diritti e dei nostri doveri, stimolare la nostra partecipazione alla vita pubblica, alle relazioni sociali, significa formarsi un patrimonio di idee che ci porti a pensare con la propria testa, per non essere succubi di nessuno, per essere uomini liberi.
Chi saranno le vittime di questa odiosa tassa, paragonabile solo a quella sul macinato di vecchia memoria?: le categorie sociali più deboli, e cioè i ragazzi, gli studenti e gli anziani.
La cultura di base si deve pagare quindi? No, la cultura di base, quella che la biblioteca maggiormente offre, non si deve pagare: significherebbe negare un diritto democratico sancito dall'articolo 3 della Costituzione. E, per rinfrescare la memoria ai più, scriviamolo questo benedetto articolo:

"Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese."


Si deve sapere poi che i proventi del ticket andranno agli autori e agli editori. Strana questa loro pretesa, dal momento che sono proprio le biblioteche a tenere in vita molte case editrici, e visto che ogni anno acquistano in media sette milioni di libri. Non basta. Quante volte un lettore, proprio in seguito alla scoperta di un autore in biblioteca, decide di passare all'acquisto delle sue opere in libreria? In conclusione: le biblioteche, non solo fanno guadagnare autori ed editori con i loro acquisti, ma, proprio perché diffondono la conoscenza degli autori, incrementano complessivamente le vendite librarie.
Noi bibliotecari siamo in subbuglio, ma, dovesse passare il tiket, invitiamo tutti i cittadini a far sentire la propria voce al grido di NON PAGO DI LEGGERE, dove quel "pago" ha ambiguamente il significato di NON SAZIO DI LEGGERE!

Civita Castellana, 29 febbraio 2004

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GENITORI CHE STUDIANO E RICERCANO IN BIBLIOTECA AL POSTO DEI FIGLI

di Alfredo Romano

Una volta i ragazzi arrivavano da soli in biblioteca. La maggior parte venivano dalla parte di Civita nuova. Attraversavano a piedi il ponte Clementino, vociando, con altri compagni che, strada facendo, si accodavano a loro. Tenerli a bada in quegli angusti spazi dove era allocata allora la biblioteca (erano i primi anni 70), non era facile. Erano i tempi delle "ricerche", termine ormai consumato che si affacciava allora nella scuola, col dire che i ragazzi dovevano guardare oltre i soliti "compiti a casa" ed esplorare altri canali di comunicazione e di informazione.
Di libri nelle famiglie a quel tempo ce n'erano pochi, e la biblioteca, che nasceva proprio in quegli anni, veniva incontro a tutte le fasce di età quale servizio culturale di documentazione, di educazione permanente e di informazione sul territorio. Erano proprio i ragazzi ad usufruirne di più, sia piccoli che adolescenti. La biblioteca per loro era anche un punto d'incontro e manifestavano una curiosità straordinaria per quei libri colorati (ancora pochi in verità), le nuove enciclopedie, le novità librarie; sembrava loro fantastico poter entrare senza chiedere permesso e aggirarsi tra gli scaffali a toccare, a sfogliare e a riporre i libri in tutta libertà. Ancora non era arrivata la fotocopiatrice, sicché, armati di quaderno e penna, s'accucciavano intorno al loro tavolo, leggevano e provavano a scrivere, riassumendolo, l'argomento da presentare all'insegnante il giorno dopo.
Non sempre afferravano il concetto e il significato delle parole e mi pregavano di venire loro in soccorso. Io mi divertivo a fare il saputello con loro, a stupirli, a stimolare in loro l'amore per la lettura, per la poesia, la frase chiara e corretta. Certo, a volte erano così turbolenti che ero costretto a "farli accomodare" fuori, anche perché c'erano ragazzi delle superiori o universitari che pretendevano di studiare, altri di leggere il giornale in santa pace. A ricordarli, quegli anni pionieri, provo ancora tanta nostalgia: la sera tornavo a casa che mi sentivo sprofondato in una piacevole e meritata stanchezza.
E arrivò la fotocopiatrice. La svolta non fu rapida, si trattò di una rivoluzione lenta e inesorabile. Piano piano, piano piano, i ragazzi scoprivano le fotocopie e, invece di leggere e riassumere, una volta pagate le fotocopie, uscivano dalla biblioteca felici di non essersi sottoposti a quella tortura del riassunto. Io, a dire il vero, cercavo ancora d'invogliarli, ma loro si giustificavano col dire che le fotocopie servivano a scuola per un collage o per un quaderno collettivo o per un manifesto da appendere sui muri dell'aula. In ogni caso i ragazzi continuavano a incontrarsi in biblioteca, si portavano a casa i libri presi in prestito, leggevano Topolino, facevano chiasso, ma venivano, e venivano da soli.
E poi venne la piscina, la palestra, venne il corso d'inglese, di pianoforte, di chitarra, venne la festa di compleanno degli amichetti e dei compagni di scuola… I genitori, come forsennati, i pomeriggi in macchina ad accompagnare questo lì e quello là e poi pure in biblioteca… "Bisogna correre in biblioteca, mo' ci si mettono pure gli insegnanti a ordinare fotocopie: come si fa a costruire un giardino, gli strumenti musicali degli Aztechi, come vestivano i Greci, l'albero genealogico della regina Elisabetta… ci fosse almeno il parcheggio, è riservato ai residenti, bisogna pagare, come si fa, lassù, ai parcheggi del Belvedere, è troppo lontano, non c'è tempo…"
Ed entravano in biblioteca ragazzi e genitori. Insieme prendevano posto intorno a un tavolo con i libri richiesti, i genitori a sfogliare, a scegliere quali fotocopie per la bambina che, in mezzo, assente, annoiata, vagava con lo sguardo intorno, mentre loro a prendere appunti, a borbottare esclusivamente tra sè.
Ma, ultimamente, si sta facendo strada un'altra abitudine. Perché la mamma o il papà devono condurre i figli in biblioteca per le fotocopie o per i libri in prestito? C'è bisogno dei figli? No, non c'è bisogno dei figli. E così, mentre il ragazzo è impegnato in uno dei tanti forsennati corsi, o, il più delle volte, a scorrazzare in motorino in via San Gratiliano, la mamma arriva ordinando fotocopie e libri di un autore di cui a malapena sa pronunciare il nome. Altre volte piomba trafelata con un biglietto dove il figlio ha scritto in orribile e svelta grafia l'argomento da fotocopiare e ne riesce difficile l'interpretazione. E non si sa neppure se gli serve un testo lungo, corto e di quale autore…
"Signora, ma non potrebbe venire qui suo figlio? Sarebbe più semplice per lei e per noi". La mamma dapprima guarda sconsolata, ma poi si riprende e assicura che il ragazzo ha da fare, oppure che sta male… o che è rimasto a casa per via dei troppi compiti. Sarà, sta di fatto che ormai in biblioteca vedo più genitori che ragazzi. E non solo per le fotocopie, ma anche per ritirare i libri, che poi scelgono loro magari. Sicché si falsano anche le statistiche, dal momento che sotto il nome degli adulti vanno fuori tanti libri per ragazzi.
Non sempre è così. Ci sono genitori che accompagnano i bambini in biblioteca perché amano la biblioteca e intendono trasmettere ai figli lo stesso amore, e se ne escono insieme con cataste di libri. Ma il fenomeno dei padri e delle madri che si sostituiscono ai figli nel venire in biblioteca rimane ed aumenta.
L'altro giorno, però, a mio modo di vedere, è successo un fatto straordinario. Due solite mamme con i rispettivi ragazzi a chiedermi le fotocopie. "Mi dispiace, ma oggi la fotocopiatrice è rotta". E loro di rimando: "E come si fa? Le fotocopie servono a scuola per domani!". Parole dette con palese apprensione, i figli senza fotocopie, chissà, il giorno dopo magari un rimprovero dell'insegnante, o non sia mai un brutto voto.
Allora non ce l'ho fatta più, e con tono deciso: "Signore care, ma quando non c'era la fotocopiatrice, come si faceva? Ma un rimedio ve lo trovo io!".
Le mamme, di lì a poco, mi hanno visto arrivare con due penne, dei fogli di carta e due volumi con l'argomento richiesto. Ho messo a sedere i ragazzi, li ho indirizzati sulle pagine giuste, carta e penna, e poi: "Adesso leggete un paragrafo per volta, vi fermate, ripassate in mente quel che avete capito, lo scrivete con parole vostre e poi passate al paragrafo successivo. Non è difficile, vedrete che la vostra insegnante apprezzerà il vostro sforzo. Non solo, ma sono sicuro che, così facendo, qualcosa vi resterà della vostra ricerca".
Ho avuto paura che le mamme interrompessero l'esperimento col dire che non c'era tempo, che a casa avevano da sbrigare… ma, incredibilmente, sembravano assecondare. Quando si dice il miracolo!
E così, come se l'avessero sempre fatto, i due ragazzi, con calma, si sono cimentati con l'esercizio delle lettura, del ripasso e della forma scritta. Le mamme, costrette nel frattempo, per non annoiarsi, a curiosare tra gli scaffali, si erano imbattute nel libro desiderato. Sulla faccia dei ragazzi che uscivano traspariva la soddisfazione per una fatica da far valere a scuola l'indomani. Le mamme, ormai rapite dalla trama del libro cominciato, ne hanno chiesto il prestito. Ed era il primo prestito della loro vita. Forse, mi sono detto, non sarà l'ultimo.
E, come tanti anni fa, la sera, tornando a casa, ancora una volta mi sono sentito sprofondare in una piacevole e meritata stanchezza. Ah!


Civita Castellana, aprile 2004

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ELEZIONI AMMINISTRATIVE DI GIUGNO

LETTERA AL FUTURO SINDACO DI CIVITA CASTELLANA

di Alfredo Romano

Caro Sindaco prossimo venturo,
in vista delle elezioni, ti scrivo per dirti, come in certe lettere bonarie di un tempo, che "io sto bene, il mio cavallo ha la febbre e così spero di voi". Io appartengo a quella schiera di cittadini che non è indifferente di fronte all'evento: non dico tanto i sindaci sono tutti uguali. Ogni volta invece mi carico di aspettative, e questo anche nell'eventualità che non venga eletto il mio candidato preferito. Nel tal caso, spero sempre che la città ne possa guadagnare, anzi mi leverei tanto di cappello (chapeau!) a qualsiasi sindaco che mostrasse di governare per il bene della città.
Sarai di centro? di sinistra? di destra? uomo? donna? Chissà. Ma una cosa vorrei che tu facessi appena eletto: proclamare ai quattro venti di voler essere il sindaco di tutti, anche di quelli che non ti hanno votato.
Oggi, col fatto che sei eletto direttamente dal popolo, la legge ti assegna un potere non irrilevante. Sempre più vieni visto come il capo di un'azienda. Ecco, confido che tu, più che a un'azienda, voglia pensare a un centro di servizi che ha lo scopo di realizzare il benessere e la felicità, lasciami dire, dei cittadini. Proprio così, sindaco come servitore, te ne saremmo grati. Se vuoi, prendilo come un detto evangelico, sono sicuro che aumenterebbe il tuo prestigio.
Questa di Civita è una città considerevole: la più popolosa e industriosa della provincia. Quindi, ammetto, avrai una grossa gatta da pelare. Alcuni papabili del paese, chiamati a concorrere per la carica di primo cittadino, hanno opposto il gran rifiuto. Quindi, ti si deve riconoscere almeno del coraggio.
L'idea di servizio in effetti turba. O può spaventare. Ma una volta eletti, è come aver varcato il Rubicone, dove, sulla sponda opposta, uno striscione recita: Civita Castellana ha bisogno di un sindaco a tempo pieno! Non ci sono mezze misure, non si possono "servire due padroni" (dàgli col detto evangelico!). E poi oggi l'indennità di sindaco non è proprio una miseria, suvvia, ci si potrebbe anche accontentare.
Il passo successivo è quello di nominare gli assessori. Qui ti voglio. Gli appetiti sono tanti, forse subirai dei ricatti, forse i giochi sono stati già fatti, forse tu non potrai esimerti dal… Non m'importa se dovrai usare il bilancino per accontentare tutti, quel che più preme a tutti noi è che tu ti circonda di assessori capaci, disponibili, generosi anche, quelli che non prenderanno iniziative solo per cercare visibilità a tutti i costi. Un'ossessione, quest'ultima, che da tempo in qua attanaglia quasi tutti coloro che hanno il governo della cosa pubblica.
Aspetta, però, sto pensando all'assessorato alla cultura. Stranamente è diventata la carica meno appetibile. Chi la ottiene quasi quasi si offende. Il budget assegnato in effetti è scarso, con quel poco non si possono coltivare troppi "clientes". Negli anni 70 e 80, invece (penso a Renato Nicolini), la carica faceva effetto, si diventava famosi. Ecco, cortesemente, se proprio nessuno vuol fare l'assessore alla cultura, caro sindaco prossimo venturo, vedi di pescare fra tanti giovani volenterosi (e ce ne sono) che si metterebbero volentieri al servizio della città: solo per gioco magari, o per avventura, ma sempre con l'idea di servire.
Ora, non voglio presentarti un programma di governo, a questo ci stanno già pensando i partiti. Voglio solo raccomandarti alcune cose concrete, piccole questioni, la cui soluzione, magari, sarebbe un bene per tutti. Cominciamo con la macchina del Comune. Ecco, se c'è una cosa che manca, a parte l'annosa scarsità di personale, è la comunicazione. Sui portoni di ingresso agli uffici, per es., manca l'orario per il pubblico, che è bene si possa leggere dalla strada anche quando sono chiusi. Fossi in te, poi, costringerei, sempre gli uffici, a comunicare tra loro anche per posta elettronica. Si eviterebbe, in questo modo, il via vai di impiegati, si risparmierebbe carta, e, soprattutto, tempo. Inoltre ogni ufficio, al mattino, dovrebbe aprire il computer per vedere se c'è posta. Istituzioni e cittadini, sapendo di quest'uso, scriverebbero più volentieri al Comune, e non necessariamente per protestare, ma anche per proporre, incalzare, raccontare. A te stesso consiglio di dedicare un po' di tempo al giorno a questa pratica, o almeno, che qualcuno apra la posta per te e ti informi, ti tenga aggiornato. Se poi tutte le lettere che partono dagli uffici evidenziassero nell'intestazione anche l'e-mail e il sito ufficiale del Comune, sarebbe prova di buona comunicazione. Ma non fermiamoci al dialogo virtuale, sarebbe bene che, almeno un giorno a settimana, la tua stanza fosse aperta a tutti coloro che vogliono parlarti. Si dà il caso che il sindaco, oltre che un capo, venga visto anche come un padre, uno che dirime le questioni, che sa essere super partes, che sa prendere le decisioni giuste costi quel che costi.
La città bella. Ecco, questa per me è un'ossessione. Se siamo circondati di armonia, ce ne gioviamo nell'anima e nel corpo. Vorrei che l'idea del bello fosse anche una tua ossessione. Informare, educare, ma anche reprimere. Niente cani a guinzaglio la mattina presto o la tarda sera a spasso per smerdare giadini, vie, marciapiedi. Ogni padrone dovrà essere munito di guanto, paletta e busta. E poi niente carte, cicche e pacchetti per strada. Fare come a Varese: multe salate.
E le vecchie ceramiche abbandonate del centro storico? Si tratta di archeologia industriale che va ricuperata e data ai cittadini (sale multimediali, teatro, concerti, mostre, conferenze, bibliomediateca, scuole di formazione, ecc.). Hai presente quello che si è fatto col Lingotto di Torino? Da noi ci crescono dentro erbacce, piante, gatti e topi. E le nostre fabbriche di ceramica? Hai dato mai uno sguardo ai piazzali antistanti? Il più delle volte sono dei magazzini all'aperto, per non dire che vi stazionano anche scarti di ceramica. Lo spettacolo, dài, è brutto. Hai mai visto le piccole aziende che si affacciano sulla Via Emilia da Bologna a Modena? C'è da specchiarsi per la pulizia, i fiori, le piante, le invenzioni ornamentali. Perché non fare lo stesso? Facciamo un corso sull'idea di bello agli imprenditori.
E quegli striscioni di plastica pubblicitari di tanto in tanto sulle facciate degli edifici del centro storico? Mi meraviglio di quell'«Aprite le porte a Cristo» che compare e ricompare per dei mesi in via Ferretti a coprire una facciata bellamente restaurata in rosa con bifora in bella vista. Ho rispetto per Cristo. Lui il bello lo ha creato. Esistono certamente modi più "cristiani" per diffondere la fede.
Gli ingressi nella città. Per chi viene da fuori sono il biglietto da visita. Hai presente, per es., quello di Via Nepesina all'altezza del mattatoio? Nei pressi dello svincolo si apre sulla destra un grande spiazzo diventato il deposito di cassonetti inutili: residui di spazzatura, plastica in specie, sparsi dappertutto. Francamente… scoraggia. Voglio dire dall'entrare in città.
Tante volte, quando noto delle brutture in giro, mi chiedo: ma il sindaco, gli assessori, non vedono? Però tu, mi raccomando, non trovare sempre la scusa che non ci sono soldi, perché ci sono soluzioni che non costano. Basta che tu osservi, basta che tu ti duoli.
I parcheggi. Si può eliminare quello che circonda la biblioteca e farne un giardino della cultura all'aperto? Un progetto c'è già. Quindi neanche lo sforzo. Ma qui, forse, giacché faccio il bibliotecario, sono di parte. Prova a fare un referendum cittadino sulla questione, io già vedo il risultato.
L'ambiente. Solo qualcosa. Una pista ciclabile non t'interessa? Ne hai mai viste altrove? Io sì, tante, e ti assicuro che sono frequentate, e gli amministratori se ne vantano e anche i cittadini. Sembrano, a volte, fare la differenza. Come dire che la pista ciclabile è la dimostrazione che il sindaco è sensibile a… basta così.
Ti dice qualcosa il fiume Treia nei pressi di Legata? Bene, facci un salto. Vedrai un bel po' di pesci morti e l'acqua spumeggiante. È il nostro fiume, e salvarlo ci tocca. E poi cerchiamo di valorizzare quella che rimane l'unica "spiaggia" di Civita Castellana.
E gli immigrati? Si può evitare che stiano ammassati in stanze poco confortevoli pagando affitti esosi? La loro dignità è anche la nostra e non ci deve far dormire l'idea che qualcuno, accanto, viva in una situazione di degrado e di promiscuità, e per giunta sfruttato. E non la meniamo con gli italiani all'estero che erano migliori. Se vogliamo che gli stranieri si integrino dobbiamo farli vivere come dio comanda. Anche qui c'entra l'amore per il bello.
Un'ultima cosa: la camera mortuaria. Mi spiace finire con questo argomento, ma, caro sindaco prossimo venturo, debbo proprio dirtelo. Voglio ricordarti che la civiltà è cominciata con il rito del seppellire i morti: l'uomo prendeva consapevolezza di sé, del suo essere su questa terra, del suo destino. Perciò il culto dei morti è la base della nostra civiltà, il rispetto per chi ci ha preceduto è il rispetto per noi stessi. Dacché mondo e mondo, la morte è sempre stata accompagnata da un rito in un luogo prescelto, un modo per accompagnare l'ultimo viaggio. Ti sembra che la camera mortuaria di Civita Castellana sia un luogo adatto per lo svolgimento di un rito, fosse solo quello del pianto? Io, ogni volta, inorridisco. E non mi dò pace. Suvvia è una vergogna!
Non mi dilungo. Ah, riguardo alla febbre iniziale, mi auguro ti duri per tutto il mandato. Per governare, sai, ti servirà qualche decimo in più. Ma non darti pensiero, succede anche agli artisti quando creano. In quanto a me, ti prometto di fare la mia parte di cittadino, consapevole non solo dei miei diritti, ma anche dei miei doveri. Però adesso tocca a te. In bocca al lupo, caro sindaco prossimo venturo.

Il tuo Alfredo Romano

Civita Castellana, 26 aprile 2004

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A ricordo del maestro Roberto Costanzelli, che ci ha lasciati proprio in questi giorni, riportiamo qui di seguito l’articolo che uscì nel 1988 sul n. 26 dell’Informatore Civitonico, periodico dell’Amministrazione Comunale di allora. Costanzelli aveva da poco pubblicato per i tipi della Telligraph il suo primo libro di poesie dal titolo: “Civita Castellana in lungo, in largo, in tondo, con verso sciolto, libero e giocondo.[2]


A CIVITA MI PORTÒ LA GUERRA, MI TRATTENNE L’OSPITALITÀ E L’AMORE, CANTO E SCRIVO POESIE PER GLI AMICI

di Alfredo Romano

Quei fantasmi di un tempo

Mi sono imbattuto nelle poesie di Costanzelli e, non conoscendolo, ho cercato d’immaginarmelo tra quelle rime libere e sciolte, come recita il titolo, in uno stile tutto personale, al di fuori di schemi e mode letterarie. Poi il desiderio d'incontrarlo: l'appuntamento è nella sua casa, vi assiste premurosa la moglie Nicolina.
“Non sono né un romantico, né un leopardiano:” ammette “ho sempre fatto poesia per gli amici, non so scrivere in prosa, a tal punto che anche nelle lettere me ne esco sempre con qualche rima.”
Ma di che cosa trattano queste poesie?: sono le strade di Civita Castellana percorse in lungo e in largo, di giorno e di notte, a piedi. Sì, a piedi, che è l’unico modo per cogliere la caducità del tempo tra le case, gli angoli, i giardini, ma anche la gente, i giovani, i loro simboli nuovi così effimeri. E i platani di Via Roma, inermi guardiani di più generazioni, muti e offesi dalle grida, dalle risa.
Ma ecco che arriva la notte e riappaiono i fantasmi di un tempo, quelle voci, quei silenzi tanto cari al poeta. E il poeta, espropriato del giorno, si riappropria della notte… quella notte che fa presto a passare. È la notte dei ricordi, ricordi semplici di piccole cose che poi fanno la vita.
E c’è un fatto nelle poesie di Costanzelli: le strade, la vita, i personaggi sono strappati al grigiore, all’oblio della provincia. E tutto questo è merito della poesia, tra i più nobili strumenti del comunicare. Perfino di un quadro bello si dice: c’è poesia. Ma c’è qualcosa in più che contraddistingue la poesia di Costanzelli, ed è l’ironia. L’ironia è quell’arma in grado di giustificare qualsiasi testo; in ogni caso lo salva, lo rende accettabile, specie quando uno si abbandona ai sentimenti più teneri. Costanzelli è anche malato di nostalgia: nei suoi versi riaffiora il rimpianto per ciò che il tempo distrugge, anche quell’amarsi dolce e gentile di una volta nel simbolo dei cuori trafitti. Ma lo dice con ironia, con scherzo, quasi a dire: ridiamoci sopra.


Le vicende

Ma chi è Roberto Costanzelli? Dareste per scontato che è un civitonico, visto che sa rievocare così bene i fantasmi che s’aggirano per gli angoli più nascosti di Civita. E invece no: è un emiliano nato a Bondeno in provincia di Ferrara nel lontano 1922. E lo è a tal punto che, malgrado i quarant’anni e passa dacché ormai vive a Civita, non ha per nulla perso quel tipico accento padano diventato così familiare nei film di Fellini, di Pupi Avati o di Bertolucci.
Ma come c’è capitato a Civita Castellana? Paradossalmente ce lo portò la guerra (quando si dice destino!). Dopo l’otto settembre del ’43, Costanzelli faceva parte di un corpo di soldati che avevano il compito di scavare trincee sul fronte di Cassino. I fitti bombardamenti degli alleati, nel giugno 1944, lo sorpresero dalle parti di Lanuvio e, sbandato, con altri due compagni tentò la strada di casa camminando tra campagne e monti ostili, rifuggendo da strade piene d’insidie. A Castel Sant’Elia, preso tra due fuochi, si dovette fermare: c’erano i tedeschi e gli alleati avanzavano dalla Via Flaminia. Ospite nel casale della famiglia Mei, per dormire trovò riparo sotto un forno a legna. Di giorno, per guadagnarsi da vivere, aiutava i contadini nella mietitura e li dissetava nella calura estiva portando loro da bere nelle coppelle. Fu proprio nel casale dei Mei che conobbe le prime famiglie di Civita, anche loro sfollate a causa dei bombardamenti, e non mancò di farsi delle amicizie. Andati via i tedeschi, non potendo tornare a Bondeno per via della linea gotica che divideva l’Italia in due, preferì prendere dimora a Civita e non gli fu difficile trovarsi una stanza a Piazza di Massa, che allora, lui ricorda, era tanto silenziosa e di tanto in tanto s’apriva una tenda da qualche finestra.
Civita, in quel frangente, era colma di macerie: case ed edifici erano crollati sotto le bombe, e Costanzelli, come tanti, diede una mano nella rimozione dei detriti. Anzi, visto che era un maestro di scuola (non aveva documenti, ma gli credettero sulla parola), gli fecero tenere al Palazzo comunale un corso estivo per il ricupero dell’anno scolastico perso per via della guerra.
Quando la guerra finì, tornò finalmente alla sua Bondeno, ma ci rimase per poco: a Civita lo aspettava ormai non solo il lavoro, ma soprattutto l’amore di Nicolina.
Del periodo successivo, il dopoguerra, Costanzelli rammenta piacevolmente una lunga esperienza teatrale della quale oggi a Civita non v’è più traccia. Al teatro Florida allora si rappresentavano commedie musicali senza molte pretese, osserva il maestro, con testi di Marcello Matteucci e sceneggiatura dei fratelli Laurenti. Costanzelli cantava e recitava, e con lui un certo Stopponi, un tale chiamato Zanzara e un altro che faceva Belfi. L’orchestra era formata da elementi del posto e ne era direttore un certo Del Priore che era un bravo violinista e dava pure lezioni. Della compagnia faceva parte anche una ragazza, il che, per un paese di provincia, era alquanto raro allora.
Un altro ricordo curioso è legato a una partita di calcio che Civita (a quel tempo in serie C) disputò fuori casa contro Cento, un grosso paese del Ferrarese. Costanzelli ebbe l’avventura d’assistervi e non si spiegava come dagli spalti i tifosi del Cento lanciassero imprecazioni contro il papa, quasi che Civita stesse ancora nello stato pontificio. Poi capì che i civitonici, per i ferraresi, erano romani, come a noi capita a volte di chiamare indistintamente milanesi quelli del nord. Civita, in ogni caso, perse la partita col Cento con un 4 a 1.
Per quaranta lunghi anni Costanzelli si è poi dedicato al lavoro di maestro. A Civita, conferma lui stesso, ha trovato quell’accoglienza che non gli ha fatto poi rimpiangere così tanto la sua terra natia. E si sente, perché i suoi versi altro non sono che un omaggio, o meglio dire, un atto d’amore per Civita Castellana.

[2] Una copia del libro si può ritirare gratuitamente in biblioteca.

Civita Castellana, giugno 2004

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I CONTADINI GUERRIERI FALISCI CHE POPOLARONO ALPIGNANO

di Alfredo Romano

Alpignano è una città che si trova in prov. di Torino; ha una popolazione di 16.997 abitanti (poco più di Civita Castellana). E' città industriale: piccole e medie industrie nel settore metalmeccanico, ma anche una multinazionale, la Alpignano Lamps, prima Philips.
Ma perché parliamo di Alpignano? Non ci crederete, ma entrando nel sito della biblioteca di questo paese ho fatto una scoperta sensazionale: quando nel 44 a.C., epoca di Augusto, Alpignano divenne colonia romana, fu iscritta nella tribù Stellatina con l'immissione di contadini-guerrieri provenienti da Falerii Novi, che presero possesso delle terre loro assegnate.
Una notizia che mi ha fatto sussultare, e mi sono chiesto come mai questa storia finora fosse rimasta ignota. Ho scritto alla bibliotecaria di Alpignano Francesca Ciccolella per saperne di più. Dalla documentazione che mi è pervenuta si apprende che i nostri contadini-guerrieri che popolarono Alpignano, nel prendere possesso delle terre, rispettarono i villagi della popolazione indigena, in gran parte celta-ligure.
Questa scoperta, in verità, Alpignano la deve in tempi relativamente recenti, quando, nel 1832, furono disseppellite tombe ed iscrizioni che furono poi raccolte e pubblicate dal Mommsen. Dalle epigrafi vengono fuori i nomi degli antichi falisci quali i Glizii, i Rutilii, i Coruncanii, i Gavii, i Valerii, i Cornelii, gli Atii, gli Ebuzii… tutta gente che aveva cariche locali. I nuovi coloni, appena insediatisi, intrapresero la coltura di terre povere per natura e per l'origine alluvionale; boscaglie e magri pascoli furono riscattati con tenacia e fatica. Vennero fondati nuovi villagi; nomi latini presero possesso delle campagne: Reano ricorda un Regius, Giaveno un Gavius, Avigliana un Avilius, Orbassano un Orbicius, Alpignano un Alpinius.
Le epigrafi trovate sono di diverse categorie: iscrizioni sacre dedicate agli dei (templi, ex voto) e ai ministri del culto; elogi di imperatori o personaggi illustri; epigrafi su opere pubbliche; Senatoconsulti, leggi e plebisciti; iscrizioni su monumenti storici; Uffici militari; dediche sepolcrali di privati cittadini; iscrizioni figuline (su mattoni, terrecotte in genere: coppi ecc.).
La curiosità degli studiosi di oggi è rivolta anche a conoscere la vita degli uomini comuni e perciò interessano molto le iscrizioni che ricordano i mestieri dei defunti: in una lapide, per es., viene ricordato un fabbricante di chiodoni, in altre si ricordano i medici, i gromatici (agrimensori), i calzolai, un capo di allestimenti teatrali, i marmorari e pochi altri.
Oggi, dell'Alpinianum romana restano solo lapidi e frammenti, ma non munumenti rilevanti. Proprio nel territorio di Alpignano si svolse, nel 312 d.C., la prima importante battaglia tra Costantino e Massenzio, che si risolse a favore del primo, l'inizio di una campagna militare che si sarebbe conclusa a Ponte Milvio.
A questo punto, mi chiedo se non sia il caso di approfondire la conoscenza di Alpignano e immaginare di intraprendere delle relazioni di amicizia e scambi culturali con un paese nel cui sangue scorre quello dei nostri antichi antenati.

Civita Castellana, giugno 2004

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STORIE DI BIBLIOTECA

RICORDO DI UN BAMBINO DAI BEI* OCCHI CHIARI

di Alfredo Romano

È una storia di circa venti anni fa, quando la biblioteca si trovava al primo piano del Palazzo Andosilla, all'inizio di Via Roma (oggi Via SS. Giovanni e Marciano). Vi si accedeva da un cortile il cui ingresso era sbarrato da un enorme e sgangherato portone. Era, mi pare, un primo pomeriggio caldo di fine giugno, l'ora in cui i bambini che abitavano nei paraggi, approfittando del poco traffico e della pennichella dei genitori, davano sfogo ai loro liberi giochi sotto casa schiamazzando e rincorrendosi per le vie, azzuffandosi e, perché no, facendo un salto in biblioteca. Toccava vederli, dopo aver fatto le scale di corsa: mi si presentavano davanti con tanto di fiato, il viso e i capelli grondanti sudore.
Erano piccoli, al massimo sette-otto anni, e il loro scopo non era proprio quello di fare ricerche o leggere, ma tuffarsi tra i loro libri, trovare il più bello e colorato e contenderselo al grido di l'ho visto prima io!, tirandoselo ognuno dalla propria parte. E sempre mi toccava intervenire per dirimere le questioni e assicurarli che di libri ce n'era per tutti. E si portavano via i libri in prestito, ma per loro era come aver vinto un giocattolo alla riffa, e scomparivano rotolando per le scale, se non addirittura scivolando dal parapetto in muratura con gran chiasso. Io, dalla finestra, più che i ragazzi, fissavo trepidante quei libri che brandivano in mano come trofei: chissà, speriamo bene, mi dicevo: che li leggano almeno!
Ma ci fu un primo pomeriggio, un primo pomeriggio assolato di fine giugno, che non dimenticherò mai, e il cui ricordo ancora mi strugge. Ero lì a ticchettare sulla vecchia macchina da scrivere, quando un vociare in cortile mi preannunciò il sopraggiungere della solita banda di ragazzini. Dalle scale mi arrivavano voci concitate. Sentivo un "Dài! sali! cammina! mo' so' cavoli tui!" Ancora: "Così te 'mpari, mo' je lo devi pagà se no te dà un sacco de botte!"
Storie di bambini, pensavo, continuando nel mio ticchettio, e non m'ero accorto che la banda era già sopra, nel mio ufficio, e… "Eccolo! eccolo! nun voleva salì! Te l'avemo portato: fatte dì che ha combinato!"
Alzai la testa e la scena che mi apparve era a dir poco insolita: un bambino braccato tenuto a forza per le braccia da due più grandicelli; un terzo gli stava dietro per trattenergli ogni via di fuga.
"Fatte dì, fatte dì che ha combinato!" insistì quello che dava l'idea del capobanda indicandomi il piccolo malcapitato "Mo' tocca che paga un sacco te sordi" finì per sentenziare.
Ma, sinceramente, non diedi molto ascolto a quelle accuse o minacce profferite; fui attratto, invece, da quel bambino che, simile a Pinocchio, se ne stava come fra due carabinieri in erba. La faccia scura e spaurita faceva risaltare i due occhi chiari e luminosi che mi fissavano dal basso in alto come a chiedermi pietà. E mentre i compagni continuavano a sbraitare, lui se ne stava muto, come rassegnato a subire qualsiasi pena gli sarebbe stata inflitta.
"Lasciatelo stare!" ordinai. I ragazzi ubbidirono. Il bambino, stranamente, non approfittò per darsela a gambe, ma restò lì, in silenzio, a fissarmi con i suoi bei occhi chiari.
"Insomma volete dirmi che è successo?"
"Ha stracciato il libro della biblioteca e l'ha spiaccicato pe' terra!" assicurarono all'unisono i piccoli carabinieri.
"È vero che hai stracciato il libro?" chiesi al bambino scrutandolo in quegli occhi smarriti e regalandogli un mezzo sorriso. Ma lui niente.
"Adesso voi uscite dalla stanza!" intimai agli altri "Me la sbrigo io con lui."
"Guarda che se mi dici che hai stracciato il libro, non ti faccio niente, sai? Sono cose che possono capitare. La prossima volta magari cercherai di stare più attento, così il libro lo legge anche un altro bambino" lo rassicurai piegandomi all'altezza dei suoi occhi.
"Lo hai stracciato?" ripetei, e finalmente mi fece cenno di sì con la testa.
"Allora torna a casa, riportami il libro e così vediamo di ripararlo in qualche modo. Vai! Io ti aspetto qui." Fu un attimo: si voltò e se la diede a gambe; dai vetri della finestra lo seguii mentre si precipitava per le scale e scappava lungo il cortile. Conoscevo quel bambino, era venuto altre volte, stava di casa a Via del Governo Vecchio.
Aspettai invano. In genere, quando un libro non torna, mi cruccio, per non dire altro. Quella volta, però, non so perché, non mi davo tanto pensiero: come se quel bambino, braccato a quel modo e con quella faccia così spaurita, avesse pagato il suo prezzo.
Trascorsero tre lunghi giorni assolati, poi, improvvisamente, un tam tam, una notizia ferale che sconvolse la città: due bambini avevano perso la vita scivolando in una marrana, mentre giocavano dalle parti di Fontana Quaiola. Uno di loro era proprio il bambino di Via del Governo Vecchio.
Oh potesse tornare un giorno quel visetto scuro dai bei occhi chiari: lo colmerei dei libri più belli e colorati, sia pure col permesso di stracciarli o gettarli per terra o macchiarli…

* Davanti a termine che comincia con vocale, "bei" dovrebbe essere "begli"... ma mi suona meglio "bei": licenza!

Civita Castellana, giugno 2004

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VOGLIO PARLARVI DI VIA ROSA

di Alfredo Romano

Voglio parlarvi di Via Rosa, il più bel nome delle vie di Civita, forse perché mi evoca profumi, essenze, colori, i fiori dell’amore; la rosa della Rosa fresca aulentissima alle origini della poesia siciliana; la rosa come La vie en rose (La vita in rosa) della Edith Piaf, forse la canzone francese più amata.
Via Rosa, che dà su Piazza Duomo, è il Vicolo del Conte, quello dei Feroldi De Rosa che disponevano di un palazzo così sontuoso da permettersi di ospitare principi e principesse, come una lapide ci ricorda. Bellamente ristrutturato, il palazzo oggi è sede del Relais Falisco, un albergo che pare la residenza di un papa.
Da anni percorro Via Rosa per recarmi a piedi in biblioteca. Sul presto, alle otto, ti imbatti in gente di varia umanità: adulti che si recano al lavoro un po’ sopraccigliati, bambini semi addormentati che vanno dondolandosi col loro fardello di libri sulle spalle, mamme acqua e sapone che escono di casa con la borsa della spesa, e, ultimamente, le tante rumene che trottano per lontane abitazioni dove hanno da accudire e badare.
Mi affascinava Via Rosa. Ma non mi affascina più Via Rosa. Mi affascinava la strada al ritorno vieppiù, quando, all’ora di pranzo, i profumi della cucina si calavano dalle finestre dabbasso come nebbia e camminavi in una nuvola di sughi, di fritti e di arrosti da farti svenire. Per non dire della casalinga che canticchiava vecchie canzoni e sorridevi a quel messaggio di spensieratezza e di allegria che ti veniva da una voce sconosciuta e popolare che delle volte mi commuoveva.
Sì, oggi non vorrei più passare per Via Rosa. Oggi Via Rosa, ormai, il suo bel nome non lo merita più, Via Rosa oggi è la via della mmerda! Proprio così, cari concittadini, e mi fa schifo solo a scriverne. Da qualche tempo, stazionano escrementi freschi di ogni grandezza e colore. La mattina presto, evidentemente, i padroni di cani, confidando nell’assenza di sguardi indiscreti, raccomandano alle loro amate creature di fare toletta, per così dire, ai lati della strada. E così, i pedoni come me, obbligati nella stretta via a rasentare i muri per un’auto che transita, rischiano di spiaccicare la cosiddetta e portarsela in giro disseminando il selciato di tracce non proprio simili e quelle di una volpe sulla candida neve.
La cosa più buffa, si fa per dire, è al ritorno, quando, nel frattempo, passanti ignari con la testa fra le nuvole hanno pestato proprio lì. E così puoi distinguere, dall’impronta lasciata dalla suola, se c’è passata sopra una scarpa Nike, una Valleverde o una Lumberjack… se proprio vogliamo riderci sopra.
Vi ho parlato di Via Rosa forse perché è quella che ha un nome che non meriterebbe tanto, ma, cari concittadini, la piaga ormai è diffusa. E già, perché la mattina sul presto, proprio intorno alla biblioteca (altro luogo protetto da sguardi indiscreti) passeggiano con l’amato cane: l’anziana signora cui, poveretta, nessuno si degnerebbe di rivolgere un rimprovero; la signora matura in pigiama ancora caldo che sguinzaglia l’esserino tra le macchine, ma lui per il momento non ne vuol sapere; la single che alla mia vista si vergogna un po’ e fa finta di star lì al solo scopo di far respirare al beneamato un po’ d’aria fresca.
Ma poi tempo fa una l’ho colta sul fatto: “Ma, signora, poi la gente calpesta, entra in biblioteca e sporca!” mi sono lamentato. E la signora: “Ha proprio ragione sa’? Ha proprio ragione!” Ogni tanto qualcuno ti ricorda della ragione che è dei fessi.
Signore? No no, ci sono anche signori. Ma non sul presto. Loro il cane lo accompagnano appena pranzato, quando la gente è quasi tutta in casa e sempre non ci sono sguardi indiscreti. E così vanno bene i giardinetti dove nel pomeriggio usano sostare gli anziani e i bambini giocare. Ma il posto più agognato è Via del Tiratore, quel lungo camminamento soleggiato che corre sugli spalti della rupe e che guarda sulla Valle del Treia. In quella solitaria via che scivola protetta da un parapetto di finissimo tufo, dove sarebbe più bello scoprire i ragazzi che si baciano, che cosa si scoprono invece? Vabbè, stavolta vi risparmio. Certo, lì i cani si sentono più ispirati… vuoi mettere una cacca con vista?
È vero, lo dicono anche le statistiche: oggi è aumentata la solitudine e un cane fa compagnia, anzi combatte lo stress, e quindi tutti a comprare cani, meglio col pedigree. Capisco, ma la mmerda per strada, anche quella è contro lo stress?
Suvvia, ammettiamolo che in questo caso spazzini o operatori ecologici che dir si voglia non c’entrano niente. Siamo un popolo di maleducati, ecco quel che siamo, che per strada buttiamo di tutto. Basta dare uno sguardo alle vie del centro storico dopo le feste dei santi Marciano e Giovanni: non si può camminare per la quantità di carta, plastica e rifiuti di cibo lasciati per terra (certo in onore dei santi!), e pare che abbia bivaccato un’orda di Lestrigoni con armenti e masserizie, avrebbe detto Omero.
L’Amministrazione? Beh, a Civita, da anni e anni, tutti gli amministratori hanno sempre affermato di amare il proprio paese. Quando arriva una persona da fuori e trova che Civita sia bella, di rincalzo l’amministratore di turno quasi si giustifica con un: “È che noi amiamo il nostro paese!”
D’accordo, cari amministratori, ammettendo che voi amate questo benedetto paese e che noi siamo degli scostumati, potreste, volendo, imporci una qualche educazione? Ecco, fate in modo che da domani chi viene trovato a spasso col suo beneamato al guinzaglio sprovvisto di guanto, paletta e sacchetto, venga redarguito e perdonato la prima volta, condonato la seconda e bastonato la terza!
Siamo il paese della controriforma e, in linea con perdoni e condoni, non chiedo neanche tanta severità. Ma fate presto, per favore, pure per quel conte Feroldi De Rosa, perché smetta, poveretto, di rivoltarsi continuamente nella tomba.

P.S. A pezzo già chiuso, a riprova di quanto scritto, oggi 11 nov. 2004, prima delle 13, il solito utente che varca la biblioteca col suo fardello di mm… sotto la scarpa. Impiastricciate perfino le scale con moquette che vanno al piano superiore. E dagli allora con lo scopettone, l’acqua saponata, la varechina e, concedetemi, le imprecazioni del caso. Ma vi pare giusto? Quando finirà questa storia?

Civita Castellana novembre 2004
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ANGELO GIOVAGNOLI E ROMUALDO MOSCIONI: DUE ARTISTI DI CIVITA CASTELLANA ILLUSTRI SCONOSCIUTI

di Alfredo Romano

Vi dicono niente i nomi di Angelo Giovagnoli e di Romualdo Moscioni? Bene, sono due artisti civitonici illustri, il primo vissuto nel Seicento, il secondo a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento. Sono usciti entrambi dalle nebbie per puro caso. Il Giovagnoli è apparso d’improvviso su un catalogo di Christie’s per un’asta che doveva battersi a Roma il 15 giugno 1999. Giusto due giorni prima mi telefona un certo Sciarra, un romano ricercatore di libri antichi e locali frequentatore della biblioteca, che mi avvisa dell’asta e mi legge quanto riportato al lotto 186 del catalogo “Serie diacqueforti di Roma Antica di Angelo Giovagnoli da Civita Castellana. Roma, 1618 e “Vedute degli antichi vestigi di Roma di Angelo Giovagnoli divise in due parti comprese in rami 106. Roma, 1618.
Mi affanno a cercare l’artista qua e là: dizionari, enciclopedie, manuali con l’elenco degli artisti minori, ma niente, neanche in internet, dove, in verità, qualche Angelo Giovagnoli esiste: uno che tiene corsi di bioetica organizzati, guarda caso, proprio dalla Diocesi di Civita Castellana e un altro, concertista, che insegna corno al Conservatorio di Santa Cecilia a Roma. In ogni caso mi rendo conto che quegli acquerelli e quelle vedute del nostro sono un patrimonio da ricuperare, soprattutto che al Giovagnoli sarebbe piaciuto che le proprie opere tornassero al paese natale. Stima del lotto due milioni delle vecchie lire. Faccio il diavolo a quattro, telefono al sindaco Santini, occorre partecipare all’asta, non c’è tempo da perdere, mancano solo due giorni: il Giovagnoli deve tornare a Civita. Bene, il sindaco mi dà mandato di partecipare all’asta con una somma di 2.500.000 lire: si ha fiducia, si confida sul fatto che le opere del Giovagnoli interessino solo a Civita Castellana, di sicuro non ci sarebbero stati concorrenti. Il 15 giugno, alle nove del mattino, entro nella sala delle aste a Piazza Navona, firmo la scheda di partecipazione all’asta e mi rilasciano un cartellino rosso col n. 1153. Prendo posto avanti, la sala è gremita, gente la più varia, il battitore inizia il rito. È la prima volta che partecipo a un’asta, sono curioso, ma provo anche emozione all’idea di riportare a Civita le opere del Giovagnoli. Intanto mi sorbisco i lotti precedenti al n. 186: si battono libri, autografi e stampe, c’è perfino una cartolina con la firma del Duce che però, stranamente, trova un solo acquirente, neanche uno straccio di gara. Finalmente il lotto 186. Il battitore parte da 400 mila. Alzo il cartellino, credo di essere il solo, ma alle mie spalle un signore sulla cinquantina, un po’ dimesso, lo alza anche lui. 600 mila! 800! 1.000.000! Il signore dietro non demorde. Mi giro ogni tanto e lo squadro, gli vorrei dire: Ma cche tte frega, lascia stare! 2.400.000! Alzo. E alza il signore. 2.600.000! E devo gettare la spugna. Il signore, il signore dall’aria dimessa e alquanto tranquilla, come uno che sa il fatto suo, si aggiudica l’asta. Mi levo, gli vado vicino, mi presento, gli dico che il comune di Civita Castellana è interessato a quelle opere, che faccia un’offerta e gli scrivo a chi intestarla. Fa cenno di assenso e mi rilascia indirizzo e telefono. Poi torno a Civita come un cane bastonato.
Il signore naturalmente è un antiquario, uno di quelli che frequenta per abitudine le case d’asta fiutando l’affare. Io non demordo, faccio passare 15 giorni, m’attacco al telefono e mi lamento che l’offerta non è ancora arrivata. Lui mi assicura che non ha avuto tempo, ma che quanto prima… E così le volte successive, finché capisco che non ha alcun interesse a vendere l’opera in blocco al comune di Civita Castellana, perché guadagna di più rifilando ai privati un acquerello per volta o una veduta. Sul catalogo, purtroppo, non c’era riportata nessuna stampa del Giovagnoli e così da allora mi porto appresso la doglia di non aver potuto almeno guardare un suo lavoro, ma soprattutto la doglia di sapere della sua collezione smembrata. Povero Giovagnoli! mi viene da dire.

E Romualdo Moscioni, chi era costui? Più recente rispetto al Giovagnoli, essendo nato a Civita Castellana nel 1849 e morto a Roma il 7 giugno 1925. Moscioni era un famoso fotografo che esercitava la sua arte a Roma. Tanto per darvi un’idea, le sue foto sono conservate in vari archivi fotografici: a Roma si trova la The Moscioni Collection dell’American Academy, la Collezione Moscioni del Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari e del Centro Virtual Cervantes; a Siena esiste una Collezione Moscioni alla Fototeca Conti del Fondo Alessandro Conti. Sul Portale Maggiore del Duomo di Bitetto, un comune di 10 mila ab. in provincia di Bari, si trova una foto incisione ai sali di cromo da fotografia di Romualdo Moscioni, lastra in rame, mm. 302x241. Per non dire che ad Acquaviva delle Fonti, un altro comune di 20 mila ab., sempre in provincia di Bari, esiste una “Raccolta dei monumenti architettonici di Terra di Bari effettuata nel 1892 da Romualdo Moscioni fotografo in Roma, per incarico del Ministero della Pubblica Istruzione”. Infine, foto di Moscioni sono raccolte in un libro di Karin Einaudi intitolato “Fotografia Archeologica 1865-1914”. Roma: De Luca editore, 1979.
Ma come ho saputo di Romualdo Moscioni? Lo devo a Romualdo Luzi, bibliotecario in pensione, attualmente presidente del Consorzio delle Biblioteche di Viterbo. Mi telefona qualche tempo fa per chiedermi informazioni su tale illustre fotografo Moscioni nato a Civita Castellana. Dice che a Viterbo si vuole pubblicare un volume con le notizie sui personaggi illustri della provincia e che di Moscioni vorrebbe sapere, oltre all’anno di nascita, il 1849, anche il giorno e il mese. Io casco dalle nuvole, mai sentito parlare di Romualdo Moscioni. In ogni caso chiedo aiuto al vice parroco della Cattedrale don Luigi Romano (sì, è figlio di mio cugino Angelo), se mai il Moscioni risulti dai registri di battesimo, ma la ricerca non ha risultati: registri scomparsi, o rubati o chissà. Qualcuno, a Civita, ha notizie di Romualdo Moscioni? In fondo non è così remoto a memoria d’uomo. Se c’è batta un colpo.
A conclusione, abbiamo ritrovato due artisti di Civita Castellana di cui s’era persa la memoria. Buon per loro, perché magari meritano l’intitolazione di una strada o di un’istituzione. Facciamoli profeti in patria una buona volta!


Civita Castellana, gennaio, 2005
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A PROSITO DI UNA LIBRERIA CHE CHIUDE

di Alfredo Romano

Dopo L’Altra Bottiglia, un locale enogastronomico che aveva contribuito a dare a Civita Castellana una certa notorietà a livello nazionale, chiude i battenti anche la Libreria Cluster di Via della Tribuna nel centro storico. C’è da restare sconcertati! Una libreria era stata invocata da anni, ci si lamentava che a Civita, oltre a un teatro e altri spazi della cultura, mancasse anche un negozio di soli libri dove soddisfare il piacere di comprarlo un libro, oppure di regalarlo. E venne la libreria, quasi più di due anni fa, piccola, certo, ma sufficiente a trovare quel che desideravi in fatto di novità, magari chiacchierando e facendosi consigliare dal libraio, o solo per curiosare sulle novità o per ordinare un libro di cui s’era sentito parlare o letta una recensione. Ed era diventata, la libreria, anche un centro di aggregazione, dove ci s’incontrava per parlare di questo e quel libro come tra amici. In questi anni sono stati chiamati anche noti scrittori e poeti per presentare i loro libri. Insomma un piccolo gioiello che svolgeva una sua pur modesta funzione sociale e culturale.
Adesso niente! Vuol dire che torneremo a lamentarci che a Civita manca una libreria. Ci chiediamo, a volte: ma come è possibile che a Civita, paese a vocazione industriale e il più popoloso del viterbese, non resista, non dico un’enoteca, ma almeno una libreria? Ricordo in passato altri tentativi che sono ugualmente falliti, ma stavolta nessuno se l’aspettava e c’è in giro malumore e scoramento almeno tra quei pochi affezionati che erano diventati abituali clienti. Il libro costa troppo? Sì, certo, costa, ma non più di altri prodotti di consumo per i quali si spende, non stento a dirlo, senza vergogna. Eppure ci sono libri che salvano la vita, stanno lì, aspettano solo di essere presi e letti. Sono come quei treni carichi d’oro che passano una volta sola nella vita e ci rifiutiamo stupidamente di prenderli. Si può vivere senza libri? Certo che si può vivere. Ma vale solo per chi non li ha ancora scoperti, perché, una volta entrati nelle misteriose pagine di un libro è difficile uscirne. È la più bella prigionia che conosca, oltre a quella dell’amore. Ma lasciatemi dire che l’amore dei libri si nutre. E noi qui a Civita abbiamo fatto morire una libreria. Bella roba! E allora avanti, c’è posto: per jeans t-shirt culo ombelico quasi uno schianto, scarpe scarpette borsette zainetti gran firme ti raccomando, cellulari ogni ora amore che fai felice non so sono stufo forse chissà… Costano, costano, ma tanto paga mamma papà, nonno, l’amico, l’amante e se in bolletta si va chissenefrega. E le parole? Abbiamo dimenticato che le parole sono carne? Sì proprio così: Verbum caro factum est, il Verbo si è fatto carne, lo dice anche il Vangelo. Senza la parola, insomma, non c’è redenzione. Ecco, i libri sono fatti di parole, avere dei libri in casa, leggerli e amarli, è come riscattarci dal quotidiano così monotono e banale. I libri ci fanno uscire, mettere in viaggio, ci fanno sognare, ci spiegano il significato delle cose e degli eventi, ci riappacificano con la vita e tutti i suoi imprevisti. I libri, a volte, sono così belli e densi di emozioni, che può capitare, giunti alla fine di un libro, di dirsi: ho vissuto anch’io. E detto questo, come sopportare che chiuda una libreria? In piazza ci sarebbe da scendere, come chiudessero i forni. Sono in crisi dappertutto le librerie in Italia, è vero, non solo a Civita. Ma ci sono paesi che non tollerano che una libreria del centro storico venga soppiantata da un fast food o una jeanseria o una telefonia mobile, e la proteggono con degli incentivi. A Todi, per esempio, l’Amministrazione Comunale sovvenziona una libreria del centro storico sobbarcandosi il peso dell’affitto. Sono soldi spesi bene, cari cittadini, sono soldi che un giorno rientreranno nelle nostre tasche in forma di scienza e felicità, e proprio grazie alle parole che stanno lì, nei libri, in attesa, pronte ad accompagnarci nell’unico bel viaggio che è la nostra vita.


Civita Castellana, 8 febbraio 2005
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È USCITO

SANDRO SANTORI, RACCONTI BOLOGNESI. LA VITA, L'AMORE, LA MORTE DI TUTTI I GIORNI. BOLOGNA, EDIZIONI PENDRAGON, 2004.

di Alfredo Romano

Sandro Santori è un nostro concittadino che vive e insegna a Bologna da molti anni. Torna spesso a Civita, alle sue radici, sia in occasione delle feste, che per trovare i suoi. È un lettore della Gazzetta Falisca (gli viene spedita regolarmente), per dire che continua ad interessarsi alle vicende del luogo natio.
Sandro, che oltre a insegnare è anche poeta e scrittore, ha appena pubblicato il suo ultimo libro dal titolo Racconti bolognesi. La vita, l'amore e la morte di tutti i giorni. Bologna, Pendragon, 2004. € 12,00.
È un titolo che la dice lunga sull'identità dello scrittore. Sandro, con questo ottimo lavoro, che consiglio a tutti di leggere, fa capire quanto è così dentro ormai alla vita, alla lingua, all'anima e ai segreti di persone e cose, angoli e vie, fatti e storie di una grande città come Bologna.
Riporto il richiamo che appare in quarta di copertina del volume.
"Le quarantasei storie che compongono questo libro si svolgono tutte nell'arco di un solo anno: dal novembre del 1999 al novembre del 2000. Storie intense, ritratti brevi come un respiro, capaci di raccontare, anche nello spazio di una sola pagina, un'intera città e la sua gente. Attraverso una scrittura asciutta, efficace e priva di aggettivi, l'autore percorre le vie di Bologna e raccoglie le emozioni di chi le anima".
Dal canto mio, il libro di Sandro mi ha tenuto compagnia per più di qualche sera, dopodiché ho avuto premura di fargli sapere le mie impressioni. "Caro Sandro," gli ho scritto "che dirti, ogni racconto mi sembra lo sviluppo di un possibile romanzo. Mi piace poi quel tuo dare dignità e mito (la cosa condita con un po' d'ironia) a personaggi apparentemente normali che ci vivono accanto. È proprio vero che uno scrittore vede al di là. Aggiungi una scrittura sobria, precisa in quel dare nome alle cose e agli eventi, una scrittura partecipe e non distaccata, specie, e non solo, quando i personaggi sono ormai scomparsi e hanno come lasciato delle tracce di memorie, di voci, di odori, di profumi, per non dire di morte. Naturalmente, più di tutto, mi piacciono i finali, senza i quali vane sarebbero le tue storie".
Sandro mi ha risposto: è la risposta dell'autore del libro, ed è così interessante che voglio riportare qualche brano. Sandro mi perdonerà per questo.
"Caro Alfredo, apprezzo molto quello che hai scritto, sia per i finali "col botto" sia per i soggetti sociali di cui mi sono occupato. Era mia intenzione raccontare l'eroismo quotidiano delle persone "comuni" dei quartieri popolari. Quelli che non sono abbastanza VIP o abbastanza degradati da meritare l'attenzione di qualcuno. Non vivono nell'Empireo o a fianco del Palazzo, ma nemmeno nel ventre putrido della città. Gente che non fa notizia. Gente che compie gesti straordinari, esemplari e memorabili di cui nessuno si accorge".

Civita Castellana, febbraio 2005

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MENO TASSE, MENO BIBLIOTECHE, MENO SERVIZI

di Alfredo Romano

Sono uno dei tanti (o dei più) che non si è accorto di essere stato beneficiato dalla riduzione delle tasse, o forse (sia detto a onor del vero) mi sono conquistato solo una brioche al mese. Certamente ne avranno beneficiato i più ricchi. Ma so per certo che quel «Meno tasse per tutti» significa «Meno biblioteche per tutti» e quindi «Meno libri per tutti». Significa soprattutto «Meno servizi per tutti». Per ciò che riguarda le biblioteche, nell’ultima finanziaria c’era di peggio: blocco del turnover (cioè mancata sostituzione dei bibliotecari che vanno in pensione) e riduzione degli acquisti (anche di libri).
Insomma un paese civile come il nostro può sopravvivere e svilupparsi senza nessuna garanzia della cultura, della formazione, della conservazione del territorio e della qualità della vita.
Fino a prova contraria, le biblioteche sono uno dei tanti motori dello sviluppo economico per il semplice motivo che ricchezza e ignoranza non vanno d’accordo. E invece il nostro paese spende poco per l’università e la ricerca e permette che milioni di cittadini siano estranei alla lettura di libri e giornali. Ecco, le biblioteche costituiscono una catena essenziale nella trasmissione del sapere, perché ad esse sono collegati scrittori, editori, librai, giornalisti, scuole e università. Tutto ciò stimola la formazione, permette il progresso sociale e quindi fa avanzare la democrazia. Quando si parla della diminuzione di risorse per il settore pubblico, forse i cittadini pensano al risparmio; e invece significa meno risorse per i loro ospedali, per i loro asili e per le loro biblioteche. Sono strutture nate faticosamente e lasciarle andare in rovina vuol dire che ci vorranno decenni per ricostruirle.
Forse non tutti sanno che superata la scuola elementare, dove i bimbi sono ancora egregiamente educati alla lettura, gli adolescenti di sesso maschile, specialmente, dimenticano il libro. Sarà che la scuola fa odiare i libri, sarà che la televisione li fa disprezzare, sarà che con le fidanzatine non s’avverte più la necessità di leggere. Sta di fatto che nella nostra biblioteca (ma non solo la nostra) i i maschi sono, ahimè, il 30% dei lettori. È una statistica sconfortante, né mi può consolare l’essere, come suol dirsi “beato tra le donne”. Insomma i maschi in biblioteca stanno per diventare una specie protetta: è un campanello d’allarme per le famiglie e per le istituzioni. Manca una politica di educazione alla lettura perché si possa invertire questa tendenza. Non basta poi che il governo non sottragga risorse alle biblioteche, occorre che ognuno faccia la sua parte. Il nostro Comune, per esempio, potrebbe rendere più facile l’accesso in biblioteca. E non aiutano certo i parcheggi a pagamento intorno alla biblioteca, che, da quando sono stati istituiti (dalle vecchie amministrazioni di sinistra, per essere precisi) hanno visto diminuire l’afflusso di ragazzi. Questi, si sa, vivono ormai quasi tutti lontani dal centro storico, dove si concentrano solo 2 mila abitanti a fronte dei 16 mila complessivi. Ne viene che un ragazzo per venire in biblioteca dovrà giocoforza essere accompagnato in auto da un genitore.
Per favore, allora, riconsideriamo la politica per la biblioteca e facciamo in modo che il suo bel patrimonio accumulato in tanti anni possa essere meglio sfruttato e reso più accessibile soprattutto ai nostri ragazzi cui vorremmo riservare un destino migliore e più felice di quel che si prospetta. E già, a che cosa credete che serva questa benedetta cultura di cui si parla tanto se non a vivere una vita più felice?

Civita Castellana, maggio 2005

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INTERVISTA A GIANLUCA CERRI E PAOLA ROSSI CHE SONO TORNATI A VIVERE NEL CENTRO STORICO

di Alfredo Romano

1. I civitonici hanno lasciato il centro storico per case più comode e signorili. Voi invece state tornando.
(Paola) Certo può sembrare una scelta controcorrente ma crediamo che il contesto del Centro Storico abbia un valore aggiunto rispetto alla periferia o alle zone di espansione, qui ci sono degli edifici di gran lunga più signorili. La comodità e la signorilità delle abitazioni dipende anche da una buona ristrutturazione oltre che dalla zona urbana.
2. Il centro storico è in qualche modo l’infanzia di una città. Quanto ha contato questo mito romantico nella vostra scelta di tornare?
(Gianluca) Il centro storico è la matrice di ogni città mediterranea, è l’anima di una collettività, il testimone storico di una comunità umana. Se pensiamo che fino a cinquanta anni fa era il luogo ove si svolgeva la vita di tutti i civitonici (c’erano anche le fabbriche), se pensiamo che è il luogo dove sono nati e vissuti i nostri genitori c’è una notevole fetta di romanticismo in questo.
3. Voi siete degli architetti. Ha anche influito la vostra posizione professionale e culturale?
(Paola) Sicuramente. La qualità architettonica degli spazi urbani del Centro Storico non è paragonabile con nessun altro intervento urbanistico nella nostra città. Ristrutturare un’abitazione del Centro Storico permette di adottare scelte progettuali e tecniche molto stimolanti, è apparentemente un controsenso ma la versatilità progettuale che presenta una ristrutturazione nel centro storico non è paragonabile con edifici progettati e realizzati in maniera standardizzata. Se riflettiamo sul fatto che ogni abitazione del Centro Storico è diversa dall’altra, unica, non riproducibile, possiamo comprendere come anche il viverci diviene una fatto unico.
4. Che cosa pensano amici e parenti della vostra scelta?
(Gianluca) I nostri amici abitano quasi tutti nel centro storico, anche loro hanno fatto questa scelta, sono tornati, hanno acquistato delle case e le hanno ristrutturate. Penso che derivi anche da una visione comune delle cose, del modo di vivere. Per quanto riguarda i genitori e i parenti è abbastanza diverso: il modo di concepire la città si è profondamente modificato nelle ultime generazioni, purtroppo il Centro Storico è ancora visto e pensato come una parte di città degradata. Devo comunque dire che la scelta è stata condivisa.
5. Oltre ai motivi di ordine ideale, ci sono anche dei vantaggi pratici?
(Paola) I vantaggi pratici vanno ricercati un po’ più a fondo. E’ chiaro che abitare nel Centro Storico non può essere paragonato con abitare in altre zone della città. Se uno misura i vantaggi con la possibilità di parcheggiare l’auto sotto casa allora è fuori strada. Bisogna spostare il punto di vista, adottare un altro metro di misura. Vi sono forse altri vantaggi, uscire di casa e stare nel cuore della città, il calore della gente, la piccola dimensione del commercio come il fornaio, la farmacia, il pizzicarolo consente un rapporto diretto con il resto dei cittadini.
6. Nel centro storico vivono ormai tanti immigrati, specie romeni. Come vedete voi questa “invasione”: disturba o no il vostro immaginario?
(Gianluca) Affatto, io lo vedo come un importante fattore di ricchezza culturale. Mi piace e ci piace pensare ad una città aperta, senza barriere, una città del mondo anche se piccola. Nel quartiere risiedono persone di varie etnie, romeni, nordafricani, sudamericani, tutte persone tranquille, che lavorano. Spesso, la domenica mattina, quando tutti stanno a casa, si ascoltano musiche, suoni e voci diverse, odori di cucina che si mischiano. Devo dire che ciò crea un nuovo immaginario, apre un po’ gli orizzonti.
7. La politica per il centro storico passa anche per quella degli immigrati e della loro integrazione o sono due cose distinte?
(Paola) Ormai non si può fare una politica per il centro storico se non si prende in considerazione la condizione degli immigrati e il loro rapporto con i civitonici. Gran parte degli immigrati abitano nel centro storico, vivono in affitto, spesso in situazioni poco abitabili. La politica per il centro storico non può occuparsi soltanto di fattori estetici come arredo urbano o tinteggiatura delle facciate, una politica di integrazione significa anche creare i presupposti per condizioni di vita migliori e quindi maggior coinvolgimento di tutta la collettività, sia civitonici che immigrati, con il luogo ove si vive.
8. E i civitonici, come credete che guardino alle loro vecchie case ora abitate dagli immigrati?
(Gianluca) Non saprei, troppi hanno abbandonato le loro case. C’è stata una frattura profonda nella memoria di questa città. Il centro storico per tanti è ancora sinonimo di degrado, angustia, povertà. Lo sviluppo edilizio degli anni 70 e 80 ha praticamente sconvolto l’assetto urbanistico di Civita Castellana e relegato questa parte di città in secondo piano, anche nella testa di tanti concittadini. Ho comunque l’impressione che vi sia una profonda nostalgia, un senso di amarezza nei civitonici, per quanto si possa dire il Centro Storico è ancora il luogo dell’immaginario collettivo, è il luogo ove si svolgono le feste, il carnevale, la processione.
9. Il nostro centro storico, malgrado il rifacimento di alcune facciate, soffre ancora di un certo degrado. Ci sono solo responsabilità degli amministratori comunali che si sono succeduti oppure ha contato anche il disinteresse dei cittadini?
(Paola) Come ha detto Gianluca, c’è stato un processo lungo 30 anni che ha portato ad un certo degrado e un notevole abbandono. Certo che ci sono responsabilità degli amministratori comunali ma anche il disinteresse dei cittadini. D’altronde gli amministratori comunali sono dei cittadini come altri, i consiglieri comunali, gli assessori, i sindaci hanno seguito un’impostazione culturale generale. E se c’è disinteresse nei cittadini c’è anche negli amministratori.
10. Questo degrado può essere il prezzo che Civita paga come paese industriale?
(Gianluca) No, non può essere. E’ un prezzo che Civita paga ma non è direttamente proporzionale. Non è detto che un’economia industriale porti al degrado dei centri storici. Sarebbe come dire che il lavoro, la condizione operaia, la produzione civitonica portino al degrado e alla dimenticanza. Credo piuttosto che sia una forma culturale, una sorta di riscatto dalla condizione operaia che ha fatto desiderare delle condizioni di vita diverse: la casa, la macchina, i vestiti; in sintesi più la forma che concretezza.
11. Si può fare un paragone fra il centro storico di Civita e quello dei paesi vicini? Ci sono o no sensibilità diverse?
(Paola) La situazione è molto variegata. Ma generalmente i centri storici dei paesi più vicini sono maggiormente vissuti, c’è ancora il senso della piazza, lo “struscio” sul corso principale. Si deve sicuramente al fatto che non hanno vissuto uno sviluppo edilizio come quello di Civita. Purtroppo nel Viterbese ci sono ovunque situazioni di degrado non proprio di abbandono.
12. Le amministrazioni hanno stanziato degli incentivi per il rifacimento delle facciate. I cittadini ne hanno sapientemente approfittato oppure no? E se no, che cosa si può fare di più?
(Gianluca). Si credo che i cittadini ne abbiano approfittato, è una buona iniziativa della passata amministrazione di sinistra, non ne hanno approfittato in tanti, purtroppo. Pensa che a noi il contributo c’è stato revocato perché i tempi della ristrutturazione sono stati troppo lunghi. Ma questi incentivi non bastano, è necessario prevedere agevolazioni in conto capitale per quanto riguarda gli interventi strutturali, per la messa in sicurezza degli edifici, agevolazioni sull’ICI.
Ma una cosa è certa negli ultimi 10 anni le cose stanno cambiando, c’è una maggiore attenzione dei cittadini, diversi giovani tornano ad abitare nel centro storico. A volte basta poco, diversi edifici sono stati ristrutturati e poi è come se si crei una sorta di concorrenza collettiva, magari per anni alcune zone sono degradate e poi improvvisamente tutti gli abitanti di quei palazzi, uno dietro l’altro, decidono di ristrutturare e tutto cambia. Se immagini via Garibaldi, Piazza Matteotti e via del Corso 10 anni fa non le riconosceresti. Spesso mi viene in mente uno slogan coniato dall’Amministrazione comunale di Barcellona in Spagna, poco prima delle olimpiadi, diceva “Barcellona fatti bella” era anche uno sprone ai cittadini di quel centro storico degradato a lavorare insieme, sarebbe meraviglioso dire oggi Civita fatti bella e credo che tanti lo raccoglierebbero.
13. Voi, come architetti, ma anche come cittadini, avreste qualche soluzione per rendere più vivibile il centro storico?
(Paola) Credo che nessuno abbia la soluzione. I temi da affrontare sono tanti e complessi. La cosa più importante è comunque esigere una maggiore attenzione da parte dell’Amministrazione Comunale. E’ necessario investire di più i fondi pubblici nel recupero urbano senza necessariamente inseguire grandi interventi, gestire il traffico e i parcheggi in maniera più razionale, maggiore attenzione alla pulizia, microinterventi come la pavimentazione, i marciapiedi, l’illuminazione. Ma più di tutto uno strumento urbanistico chiaro e agile che l’Amministrazione attuale non ha preso affatto in considerazione, pur avendolo nel cassetto, ereditato da chi li ha preceduti.
14. La vostra nuova casa si trova nei pressi della biblioteca. Intorno a questa vige un parcheggio selvaggio. Secondo un vecchio progetto gli spazi intorno dovrebbero funzionare come luogo di ritrovo e di incontro per gli utenti, luogo di avvenimenti culturali per la città. Quanto è attuabile tale progetto, quanto invece c’è di utopia.
(Gianluca) L’idea è buona, il Centro Storico è il luogo vocato per la cultura. Magari tali intenti fossero realizzati anche se devo dire che non condivido l’impostazione architettonica del progetto. Si potrebbero coniugare le esigenze di chi vive nel quartiere, come il verde o il “maledetto” parcheggio con esigenze a scala più urbana.
15. Come sarà Civita Castellana, aprendo la finestra della vostra camera, al vostro primo risveglio nel centro storico?
Sicuramente più bella.

Civita Castellana, maggio 2005
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SECONDA LETTERA APERTA AL SINDACO DI CIVITA CASTELLANA

di Alfredo Romano

Mio caro Sindaco, poco prima delle elezioni comunali dell’anno scorso, avevo scritto una lettera aperta su questo giornale al Sindaco che sarebbe stato eletto, avevo fatto delle considerazioni ed elencato una serie di proposte di estrema praticità per la soluzione di alcuni problemi. Avevo sollevato la questione culturale, questa città dove non si fa cultura soprattutto perché non ci sono spazi per fare teatro, conferenze, mostre, concerti, oppure solo per riunirsi a discutere anche di problemi collettivi quali quelli dell’ospedale, della scuola, dei rifiuti. Se ne gioverebbero i giovani, soprattutto, che hanno come unico sbocco la discoteca per “sballare” o la palestra per diventare fichissimi o lo struscio in auto (si fa per dire) a Via San Gratiliano (qui, magari, consiglierei ai ragazzi, accusati di disturbare la quiete pubblica, di accattivarsi la simpatia della gente che abita nella via portandosi appresso chitarre varie per musiche, canti, danze e festosi concerti all’aperto: insomma un ritrovarsi in modo creativo, come si faceva un tempo). Ogni volta, nell’annoso problema di avere una sala, bisogna mendicarla dal vescovo, dalle clarisse, oppure ripiegare sulla minuscola Pablo Neruda o sulla Cicuti che ha una pessima acustica, ambedue, in ogni caso, prive di attrezzature adeguate. Questa città non ha un’identità culturale, non è in grado di rappresentare tutti i suoi volti, tutte le sue anime e, specie oggi, in piena crisi industriale, ci sarebbe tanto bisogno di un ritrovarsi insieme per dare un senso a questa crisi, perché la crisi non si risolve solo con i soldi, ma anche con le risorse e le capacità intellettuali. Occorre cercare strade alternative alla monocultura ceramica reinventandosi il centro storico, rivalutando i monumenti, migliorando e professionalizzando l’offerta culturale e l’accoglienza turistica.
Avevo detto della macchina amministrativa, del dialogo tra cittadini e amministratori, ma niente si è mosso su questo versante. È nato sì un sito web del Comune, da circa due anni, ma è statico, e né Lei, caro Sindaco, né gli assessori hanno delle rubriche in cui si informa e si dialoga con i cittadini. Si incarichi un ragazzo capace, uno che dia al sito un movimento giornaliero, quasi la voce dell’Amministrazione, e soprattutto si tenga aggiornato il sito. E gli amministratori non temano di mettersi in gioco esponendosi alla trasparenza.
Avevo detto della città bella, dell’idea di tenerla pulita specie dai cani al mattino sguinzagliati dai loro padroni.
E che dire degli ingressi in città poco attraenti per i visitatori come quello di Via Nepesina, degli spazi antistanti le fabbriche nella zona industriale dove spesso stazionano scarti di ceramica che non sono un bell’ornamento per chi entra in città dalla Flaminia.
E il problema del parcheggio intorno alla biblioteca, dove, se proprio non si può fare un giardino della cultura, come da progetto, almeno si favoriscano gli utenti della biblioteca, sempre perché la lettura e lo studio vanno incentivati, vanno protetti. La biblioteca poi è cresciuta fin troppo in uno spazio che era stato progettato per 4 mila libri, quando adesso il nostro registro d’inventario segna già 35 mila, e senza considerare l’archivio periodici che conserviamo da più di 30 anni: ormai siamo costretti allo scarto inventariale non proprio necessario. Lancio un grido d’allarme: la biblioteca è un servizio essenziale per tutti, specie per chi studia e cerca lavoro, ed è più che mai necessario investire nell’acquisizione di nuovi spazi.
Avevo lanciato l’idea della pista ciclabile, un’idea apparentemente inutile, ma che invece sarebbe accolta come una novità clamorosa e utilissima per la nostra libertà di movimento.
E che dire di Legata, la nostra spiaggia giù a Treia, che ha bisogno di risanamento e valorizzazione? Adesso, poi, dopo lo scandalo del ritrovamento di cave di rifiuti tossici nei pressi, c’è molta apprensione e paura di restare contaminati. So che l’Amministrazione ha disposto un monitoraggio e sarebbe bene tenere i cittadini costantemente informati sulla situazione.
E la questione degli immigrati? Si può ignorare che sono tanti e che facilitare la loro integrazione significa un maggior benessere economico e culturale per la nostra città? Come si può chiudere un occhio sullo sfruttamento, specie per gli affitti esosi, di cui sono vittime tutti coloro che sono venuti a darci una mano sia nelle nostre case sia nella produzione di beni e servizi?
Scrissi anche della camera riservata in ospedale a quelli che ci lasciano per sempre, del fatto di non essere adatta, visto il suo squallore e la sua ristrettezza, al culto dei morti che sta alla base della nostra civiltà. Che cosa è stato fatto?
Un anno è trascorso, e proprio qualche tempo fa ho assistito nella sala Pablo Neruda a un incontro in cui alcuni consiglieri di opposizione dicevano la loro su un anno di attività di governo della Giunta. Mi ha sorpreso sapere che il Consiglio comunale viene indetto raramente: anche a distanza di quattro mesi. In fase di discussione di bilancio, poi, viste le nuove procedure, ai consiglieri d’opposizione viene di fatto impedito di discutere sulle voci di bilancio e di poter segnalare eventuali proposte o modifiche. Un bilancio, tra l’altro, che viene approvato quasi con sei mesi di ritardo, ma si dice che questo lo permette la legge, d’accordo, ma sempre di ritardo si tratta e qualche disfunzione viene provocata al funzionamento della macchina amministrativa. Ma una faccenda che avrebbe bisogno di spiegazioni è questa: l’Amministrazione sta per introdurre una serie di aumenti (Ici, addizionale Irpef, rifiuti urbani) giustificandosi col fatto che sono lievitati i costi dei servizi. Uno immagina che il Comune sia a corto di risorse, dal momento che ricorre a degli aumenti impopolari, e invece no, perché, valutando le spese di entrata e di uscita del bilancio in corso, viene fuori che quest’anno il Comune (grazie anche alla politica dei condoni) gode del 30% di entrate in più. Ecco a cosa serve il sito web, qui l’Amministrazione potrebbe fornire delle spiegazioni in merito, dirimere le perplessità.
Altro argomento. Si sa che nella raccolta differenziata, i Comuni, per la legge Ronchi, dovrebbero riciclare almeno il 35% dei rifiuti, e invece il nostro Comune ricicla appena il 2%, in pratica tra gli ultimi in classifica (bella roba!). Ma la domanda sorprendente è questa: quel poco di raccolta che i cittadini s’affannano a differenziare, che strada prende? Per intenderci, il vetro viene raccolto, frantumato e fuso di nuovo per produrre altre vetrerie? il cartone e la carta vengono macerati e sfibrati pronti per produrre carta e imballi? la plastica viene trattata per ricavare oggetti e strutture in plastica riciclata? Lei, mio caro Sindaco, può dire qualcosa in merito? o è vero che tutto finisce in discarica, proprio così, con buona pace dei cittadini volenterosi?
Voglio informarla, caro Sindaco, che in Italia, da nord a sud, è nata l’Associazione dei comuni virtuosi: in internet se ne fa un gran parlare. Lo scopo è quello di dar vita a una politica di risparmio sull’energia, sull’illuminazione, sugli acquisti, sui consumi, promuovendo l’educazione ambientale nelle scuole e nel territorio, progetti di sensibilizzazione e campagne d’informazione. È dimostrato che ogni comune può risparmiare il 30% delle sue risorse e destinarlo ai servizi sociali e culturali. È un argomento che merita un articolo a parte e mi propongo di scriverlo.
Proprio un anno fa, Lei è stato rieletto, è ridiventato il mio Sindaco e, anche se non mi sono espresso per Lei, ho accettato la cosa democraticamente. Tra l’altro, ci conosciamo da quando eravamo ragazzi: politicamente avversari, ma rispettosi l’uno dell’altro, entrambi abbiamo concorso nel bene e nel male all’evoluzione di questo paese. Quando fu eletto Sindaco la prima volta, ho creduto che, dopo anni e anni sui banchi dell’opposizione, avrebbe apportato idee nuove nel governo della città, e invece, chissà perché, quasi tutti quelli che si insediano sulla poltrona di Sindaco sono ossessionati dall’idea di perdere il consenso dei cittadini, sicché è più facile che mandino in porto soprattutto quei progetti che danno più visibilità. Questo spiega perché prima delle ultime elezioni le strade di Civita siano state rivoltate come un pedalino. Lo fanno un po’ tutti, è vero, ma l’ultima volta mi pare si sia esagerato.
Mi chiedo a volte: ma gli amministratori leggono la Gazzetta Falisca? Perché tacciono quando ci sarebbe bisogno di risposte ai quesiti che vengono posti sia dai redattori che dai cittadini? Tutto sommato questo giornale rappresenta il parere di una buona fetta di opinione pubblica e gli amministratori non possono ignorarlo. Alcuni assessori sono intervenuti solo quando sono stati coinvolti, ma su questo giornale si fanno pure delle proposte che meriterebbero di essere valutate. Lo so, caro Sindaco, che gli amministratori non sono obbligati a leggere la Gazzetta Falisca. Si tratta, tuttavia, di un giornale che esprime un sentire che viene dal paese, e non ci sarebbe niente di male se attraverso il concorso sia pure di sponde politiche opposte si arrivasse a dare più felicità e benessere a questa nostra città.
La saluto e non me ne voglia.

Civita Castellana, giugno 2006

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FERDINANDO VASELLI PORTA IN SCENA GLI OPERAI DI CIVITA

di Alfredo Romano

Sabato 15 ottobre, alle ore 21, nella Sala Cicuti, con replica il giorno dopo alle 18, a Civita Castellana è successo qualcosa di straordinario: per la prima volta nella storia di questo paese, gli operai ceramisti, la loro storia, sono stati portati sul palcoscenico. Interprete unico, nonché autore dei testi, Ferdinando Vaselli, un ragazzo di Civita, che, invece di scrivere il "solito" libro o saggio sul fenomeno industriale della ceramica, ha scelto il teatro come luogo della rappresentazione, spazio scenico per raccontare storie di lavoro e di umanità. Lo spettacolo è stato sponsorizzato dalla Ceramica Flaminia nella ricorrenza del cinquantenario della fondazione: bell’esempio di mecenatismo da imitare, non c’è che dire. Sui manifesti affissi sui muri della città si leggeva: "50 lire / Spettacolo teatrale sulle fabbriche senza padrone / Con Ferdinando Vaselli, regia di Valentina Esposito / Dai racconti di Dagoberto Carabelli, Giancarlo Del Priore, Zaccaria Finesi, Lorenzo Grimaldi, Alfredo Marziali, Eugenio Saviotti, Demetrio Testalepre, Tito Valletta ed altri soci operai.
E, in basso: “Questa è una storia di passione per il lavoro: è la storia di molti operai che, in un periodo di fame e di miseria, ma anche di ricostruzione e forti spinte ideali, decidono di costruire con le proprie mani fabbriche senza padroni, iniziando dalle fondamenta, dai muri, dalle attrezzature, dalle fornaci toscane, in un periodo di lotte sindacali e di tensione sociale, quando si scioperava per 50 lire, quando c'era la fame. Questa è la storia dei soci-operai e delle fabbriche di ceramica di Civita Castellana negli anni cinquanta".
Le storie di Vaselli sono circoscritte al periodo della guerra e del dopoguerra. Le aziende padronali sono in crisi, chiudono, licenziano gli operai. Ma questi non si danno per vinti: si mettono in società, rilevano le aziende e, a costo di sacrifici altissimi, mandano avanti la produzione. Il posto di lavoro è salvo. Erano i soci-operai, quei pionieri con spirito d'avventura che gettavano le basi per quello che sarebbe diventato il distretto industriale di Civita Castellana.
civitonici e al fatto che quelle storienirebella poesia, tutti rapiti e commossi da una umanità raccontata ta. scrivLa curiosità di assistere allo spettacolo di Vaselli era tanta, ci si chiedeva come si poteva fare teatro parlando degli operai di Civita, parlando di ceramica, parlando di cessi. Ma è bastato lo spegnersi delle luci in sala e l’entrata in scena di Vaselli, per essere rapiti da uno spettacolo che si dipanava in un linguaggio di bella poesia, commossi di fronte a storie di uomini semplici e caparbi, carichi di speranze, sognatori, anche, con in testa quel “sol dell’avvenire” che ha cullato intere generazioni. E ci si rendeva conto che l’emozione non era dovuta solo al fatto di trovarsi di fronte a storie di persone che conosci, no: perché Vaselli fa delle sue "piccole" storie, una storia che appartiene a tutta l'umanità. Si può essere di Milano, di Palermo, di Parigi e provare la stessa emozione. Questo per dire che il teatro di Vaselli non si riduce a un teatro "locale", appannaggio per soli paesani, no: perché il suo modo di raccontare, la gestualità, le musiche, il ritmo, hanno a che fare con il linguaggio dell'arte, sono universali. E quel "cacatore" che troneggiava sulla scena, ecco che si trasformava, per Vaselli, in oggetto d'amore quasi: lo corteggiava nel mentre lo rifiniva con una spugna bagnata. E non è strano dal momento che il cesso, per l'operaio, era il pane, il salario, la vita.
Ma già all'inizio, Vaselli ci introduce allo spettacolo entrando a Civita Castellana: "Ci si può arrivare da due strade: la Flaminia e la Cassia, venendo da Roma una quarantina di chilometri. Ti accorgi che sei arrivato quando vedi una serie di capannoni, ci sono i cartelli. Vedi i grandi magazzini all'inizio, supermercati, ‘Bolle di sapone’, concessionarie di automobili. Ma, se fai attenzione e guardi più da vicino, ti accorgi che, per terra, incellofanati, oppure buttati lì, così, ti trovi davanti cessi e piatti... e vedi tutti gli scarti, che, se vuoi, te li puoi portare pure a casa...".
E non mancano note di poesia: "Da casa mia si sente il rumore delle fabbriche, ma mica è forte, devi essere allenato per ascoltarlo: il rumore delle fabbriche è il treno che passa, è il fiume sotto casa mia, la sirena, o i cani durante la notte, ma solo se sei allenato, molto allenato, puoi sentirlo bene, quando esce dai sassi, lo puoi respirare con l'aria, e quasi quasi lo puoi pure toccare... Da casa mia puoi sentire le urla, le risate, le bestemmie, di quelli che le fabbriche le hanno costruite... Quelli che senza di loro la fabbrica non andrebbe avanti. Li puoi anche incontrare negli stabilimenti moderni... si mettono seduti e ti raccontano, di 350 mila lire a testa per aprire, di matrimoni sfumati e forni toscani, di colatori e scioperi, merende fuori porta e sacrifici, riunioni di partito e camion olandesi. La fabbrica è il pane, ché c'era stata la guerra, ché Civita era stata bombardata, ché non c'era niente, e loro si sono creati una repubblichetta fatta da loro... una fabbrica senza padroni, pe' fà magnà tutti, pe' dà lavoro ai figli. Questa è una storia di altri tempi, di mondi lontani, degli anni '50, di buoni che vincono sui cattivi, e ricordarsele certe volte fa pure bene, queste storie, fa quasi sperare".
Ferdinando Vaselli è diventato attore frequentando il Centro Studi "Enrico Maria Salerno" di Fiano Romano. Per questo lavoro si è dato da fare per un anno intero, studiando, cercando in biblioteca, intervistando vecchi soci-operai. Tutto ciò è stato rielaborato e adattato a finzione scenica. Si vede che dietro c'è tanta fatica e passione. È una bella scoperta Ferdinando. Il suo spettacolo dovrebbe vederlo tutta Civita. Lui racconta, suona, canta, gioca, salta, scrive, disegna, rompe piatti, fa piangere, fa ridere…
Mi chiedo quanti artisti, gruppi musicali, compagnie di teatro ci sono a Civita che meriterebbero di essere valorizzati. Sogno un amministratore che un bel mattino si sveglia e dice: farò di Civita il paese del bello, dell’arte, della musica, del teatro, della danza e, perché no, dell’allegria, vietato essere tristi!

Civita Castellana, novembre 2005

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SVEGLIA PER LE PUBBLICHE AMMINISTRAZIONI: SONO NATI I COMUNI VIRTUOSI

di Alfredo Romano

Uno strano spettro si aggira per l’Italia: il comune virtuoso. Sono nati i comuni virtuosi, quelli che incentivano i cittadini residenti all’acquisto di riduttori di flusso per il risparmio dell’acqua, di lampade a basso consumo per il risparmio energetico; quei comuni che si impegnano nell’utilizzo di tecnologie dolci quali il bio-diesel, i pannelli solari, la bioedilizia e il potenziamento della raccolta differenziata fino a percentuali del 60%; quei comuni che adottano buone prassi sull’ambiente, sulla partecipazione dei cittadini alla vita amministrativa e sull’integrazione sociale.
Tutte teorie campate in aria? Niente affatto, sono comuni che vanno sul concreto e che già hanno messo in pratica i loro intenti, per il semplice motivo che non solo è utile, ma anche economicamente conveniente. Sicché si sono trovati pure a fare un convegno, per raccontarsi le loro esperienze e stimolare il resto dei comuni ancora sonnacchiosi. Alcuni di questi comuni? Eccovi serviti: Monsano (AN), Vezzano Ligure (SP), Melpignano (LE), Colorno (PR), Settimo Rottaro (TO), Gabicce Mare (Pesaro Urbino), Gubbio (PG) e tanti altri.
Dal convegno è scaturito un “Manifesto dei Comuni Virtuosi”, per dare vita a un vero e proprio coordinamento nazionale degli enti pubblici interessati a mattersi in rete attraverso uno scambio di esperienze, progetti ed idee per poter agire concretamente.
Di solito quando ti presenti in un Comune e proponi un progetto virtuoso, ti rispondono sempre con la solita solfa: non è di competenza del Comune, mancano i fondi, non si può fare… E invece già adesso decine di comuni stanno dimostrando che è possibile amministrare in modo virtuoso col fine di alleggerire le tasche dei cittadini, destinando i risparmi a programmi di utilità sociale.
Ma quale comune si può chiamare virtuoso?: quello che ama il proprio territorio, ha a cuore la salute, il futuro e la felicità dei cittadini, quello che interviene a difesa dell’ambiente e migliora la qualità della vita, quello che avvia grandi processi di trasformazione partendo dalle piccole cose.
Facciamo un esempio concreto di risparmio energetico realizzato dal comune di Trezzano Rosa (MI), senza spendere una lira, merito di Luciano Burro, assessore all’Ambiente, che scopre semplicemente un finanziamento tramite terzi per rifare l’impianto di illuminazione stradale, aumentando la luminosità del 5% e rispettando i limiti di legge sull’inquinamento luminoso. La gara d’appalto se la aggiudica La Tiesco di Novegro di Segrate. Durata del contratto 15 anni. La Tiesco finanzia ogni aspetto (dalla realizzazione alla manutenzione) dell’impianto. I risparmi generati vanno divisi a metà con il comune. Risultato: 35% di risparmio complessivo (cioè oltre 250 mila euro in 15 anni) e l’istituzione di un fondo ambientale nel quale il comune reinvesterà i risparmi. Ciò, anche, ha permesso al comune di avere un premio dall’Unione Europea riservato a quei comuni che sviluppano risparmi energetici. Non ci credete? Andate sul sito
www.comunetrezzanorosa.it. Un esempio, quindi, di soluzione concreta di risparmio energetico, immediatamente realizzabile e a costo zero per la pubblica amministrazione, in un periodo in cui tutti si lamentano per la mancanza di soldi, in cui si tagliano i finanziamenti e la macchina comunale è sempre più complicata.
Prendiamo un altro comune, Monsano (AN), di 3 mila ab., che è diventato un centro di sperimentazione sociale. Sfruttando i mezzi offerti dall’informatica, 200 famiglie stanno sperimentando forme avanzate di consociazione nel settore della telefonia, della produzione di calore e di elettricità dal sole.

E che dire dei “Gruppi di acquisto comunali?” che vengono promossi e appoggiati proprio dall’amministrazione comunale? Si tratta di un insieme di persone che decidono di incontrarsi per acquistare all’ingrosso prodotti alimentari o di uso comune, servizi etici e tecnologie eco-compatibili da distribuire tra loro. Per prima cosa si prediligono i prodotti locali, in questo modo non solo si ottiene un risparmio, ma si impedisce alle merci di viaggiare, riducendo così il traffico per trasporto merci, il consumo di energia e di inquinamento. L’ideale è orientarsi verso prodotti biologici ed ecologici, così diminuiranno gli effetti sui pesticidi, sull’inquinamento e sul consumo di risorse ed energia. Preferire, inoltre, prodotti dove i lavoratori non sono sfruttati e sottopagati: questo aiuta a regolare il mercato del lavoro. Altro vantaggio è quello di offrire una possibilità di sbocco a molti piccoli produttori che si trovano esclusi dai grandi canali della distribuzione. Come funziona? Le diverse famiglie compilano un ordine, gli ordini vengono raccolti, sommati e trasmessi al produttore. Quando arriva la merce, ogni famiglia paga per la sua parte. Cosa fa l’amministrazione comunale?: fornisce gratuitamente la consulenza per la costituzione dell’Associazione delle famiglie; concede un locale del municipio come sede; fornisce tutta l’informazione necessaria per la promozione dell’iniziativa; attiva convenzioni con soggetti terzi per l’erogazione sul territorio di servizi specifici, quali: telefonia, assicurazione, banca etica, turismo responsabile, commercio equo e solidale, ecc.
Allora si può e si deve risparmiare e il municipio deve dare l’esempio. Molti comuni hanno già raggiunto risultati concreti, basta imitarli, ci si può mettere in contatto. Adesso, amministratori e cittadini non possono dire di non sapere. Non ci sono scuse!

Civita Castellana, novembre 2005

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MAI COSI’ IN BASSO IL RAPPORTO TRA DIPENDENTI E AMMINISTRAZIONE COMUNALE

[Articolo redazionale]

Questa redazione non manca di rivolgere critiche, formulare proposte, fare analisi e denunciare le inadempienze di chi ci amministra, al sol fine di meglio governare questa città, ma Sindaco e Giunta pare facciano sempre orecchie da mercante.Ma noi non demordiamo e stavolta vogliamo mettere all’attenzione dei lettori il rapporto tra dipendenti e Amministrazione comunale: è sufficiente leggere le cronache di questi ultimi mesi per constatare quanto sia sceso così in basso. La cosa ci riguarda, perché dal funzionamento o meno della macchina comunale dipende anche la nostra vita di tutti i giorni, visto che in questa città ci viviamo.Non era mai successo, tanto per cominciare, che i dipendenti comunali (più della metà) ricorressero al giudice conciliatore per ottenere il rispetto degli accordi contrattuali firmati e sottoscritti anni prima dalla stessa Amministrazione, ma sempre disattesi; non era mai successo che minacciassero lo sciopero per vedere soddisfatti i propri diritti. E non sono tutti dipendenti di sinistra, se mai qualcuno volesse gridare al complotto politico, ma semplicemente persone che non accettano di essere calpestate nella loro dignità di lavoratori. Lo sanno tutti, tanto per informare, che il comune di Civita ha, in proporzione agli altri comuni del viterbese, il più basso numero di dipendenti. Questo perché non si creda che stiamo parlando, come è luogo comune, di nullafacenti.
Più di un anno fa, sono stati fatti dei concorsi per il passaggio di ruolo del personale dipendente. Che ne è venuto fuori? Hanno voluto istituire quattro super dirigenti pagati fior di quattrini, relegando il resto del personale a sgobbare in cambio di sole briciole. Il risultato è stato di far nascere tra gli impiegati una guerra tra poveri e un clima di tensione sul posto di lavoro con continui screzi e malumori, cosa che evidentemente piace molto alla nostra Amministrazione comunale.
Altra vicenda, quella delle progressioni orizzontali dei dipendenti, vale a dire gli scatti di aumento dello stipendio. Pur di non dar seguito agli impegni presi, hanno combinato un tale pasticcio in fatto di deliberazioni, che hanno dovuto fare marcia indietro. E guai ad ammettere di essersi sbagliati, e così, per salvare la faccia, hanno inventato rimedi peggiori del male, scontentando tutti i dipendenti, che ormai stanno perennemente sul piede di guerra. Si tratta di incompetenza, ignoranza, incapacità, cattiveria, che altro? Quello che ci sorprende, però, è la totale assenza del Sindaco in questa faccenda. I dipendenti invano hanno atteso una sua mediazione, una sua presa di posizione sul dover essere da tempo così strapazzati. Eppure il signor Sindaco, a ben vedere (glielo riconosciamo), è pur capace di modi gentili e cordiali.
Ma forse, per governare, occorre qualche dote in più, o un po’ di tempo in più magari, dal momento che lo sappiamo impelagato in mille impegni professionali e politici. La cosa che più non ci piace è quella di aver affidato, per così dire, il governo della città al segretario comunale, che le cronache cittadine dipingono ormai come il “sindaco reggente”. Ma ormai, si sa, neppure i consiglieri di maggioranza sono al corrente delle decisioni che sono prese al vertice e stanno lì solo a fare la figura dei peones.
Nella vicenda dei dipendenti, abbiamo tralasciato il ruolo dell’assessore al personale per il semplice motivo che non è persona informata sui fatti, non sa mediare, evita di presentarsi all’Ufficio di conciliazione, benché convocata, e che si trova a giocare un ruolo più grande di lei, tale che, nella storia di questo paese, non troverà minimo cenno. Non ti curar di lor, insomma, di dantesca memoria.
Questa dei dipendenti è, in ogni caso, una spia del malessere che investe tutta la città. Ci vengono in mente quelle “cartelle pazze” dell’Ici, ingiunzioni di pagamento che sono state inviate a centinaia di cittadini per tasse relative agli anni che vanno dal 1994 al 1997. La maggior parte dei destinatari, però, erano in regola, e il Comune, per rimediare all’errore, ha messo sotto tre impiegati col compito di chiedere scusa a 1500 cittadini che non si meritavano l’ingiunzione. Nella faccenda, intanto, si sono sprecati migliaia di euro per spese di spedizione, telefonate, tempo impiegato, carta e cartucce d’inchiostro. Errore, d’accordo, ma è così madornale che in qualsiasi azienda che si rispetti i responsabili avrebbero dovuto far fagotto per i danni arrecati.
Ma c’è un’altra spia che ci convince dell’inefficienza della nostra Amministrazione comunale. Si tratta delle fatture emesse dai fornitori del Comune che vengono pagate con mesi e mesi di ritardo, troppi: fatture per telefono, per gas metano, energia elettrica, carburante di automezzi, libri di testo per gli alunni: non finiremmo più. Così alcuni fornitori sono costretti a minacciare il Comune di sospendere il servizio, o a non rispondere più ai bandi di gara, oppure ad aumentare il preventivo proprio in vista di un ritardo nei pagamenti.

Eppure, a volte, basterebbe solo un po’ di buon senso per governare, un po’ di buon senso. Soprattutto ricordarsi che si è stati eletti per stare al servizio dei cittadini.

Civita Castellana, gennaio 2006

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L’articolo che segue era destinato alla Gazzetta Falisca in vista delle elezioni politiche. Non è comparso per decisione del direttore: censura? Ho ritenuto in ogni caso di dare le dimissioni dalla redazione del giornale.

DELL’INNOMINATO, DELL’ODIO E ALTRO

di Alfredo Romano

Nel 1994, un solo uomo, che aveva 7 mila miliardi di debiti, fondò un partito, si presentò alle elezioni e divenne primo ministro. Oggi, quell’uomo, sempre primo ministro, non solo non ha più debiti, ma è diventato l’uomo più ricco d’Italia, per via che le sue aziende, pur in tempi di crisi, sono le uniche che hanno realizzato profitti. Dovrebbe essere contento, questo solo uomo, e invece no, si lamenta sempre. Il solo uomo, che è padrone di televisioni private e controlla quelle pubbliche, padrone di giornali, banche, assicurazioni, case editrici, cinema, eccetera, da anni non fa che lanciare strali contro i giornalisti, i magistrati, gli intellettuali. Ma adesso è andato oltre: ha consigliato agli esponenti di sinistra di andare a fare i commercianti, o i farmacisti, o i pittori o, udite udite, i bibliotecari (proprio così). Altre categorie sono avvisate, ce ne sarà anche per loro, basta aspettare. Sono un bibliotecario, scusatemi, e dovrei sentirmi offeso, dovrei difendermi con un lungo articolo sulle biblioteche scrivendo che sono un luogo di trasmissione libera della conoscenza e di crescita culturale (lo dice l’Unesco) e via dicendo, ma non ne ho bisogno. Per farlo dovrei pensare a un avversario politico normale, ma così non è: siamo di fronte all’uomo più odiato dagli italiani, sia da quelli di sinistra, che vedono in lui un dittatorello da quattro soldi, ma pericolosissimo, sia da quelli di destra che, se per un verso hanno bisogno dei suoi soldi e della sua potenza mediatica per avere visibilità politica, per l’altro lo disprezzano perché è il loro padre padrone. Mi ricordo dei vecchi democristiani. Li abbiamo contestati, sì, ma mai odiati, perlomeno avevano il senso delle istituzioni. L’odio collettivo è qualcosa che si riserva a un dittatore, a un despota. E ce ne sono nel mondo. In Italia abbiamo la democrazia, ma… guarda guarda… l’odio collettivo è attecchito anche qui, non vi sembra strano? C’è un solo caso nella storia in cui l’odio collettivo è esploso per tutt’altra ragione. È successo negli anni in cui in America esplose il mito di Rodolfo Valentino, e le donne americane, tutte le donne, impazzivano per lui. Così, tutti gli uomini, dico tutti, presero a odiarlo: e non gli si poteva dare torto. Un solo uomo, in Italia, da 12 anni sta rubando l’anima e la fantasia degli italiani. Gli italiani si stanno snaturando, forse sono mutati per sempre. Agli occhi degli stranieri, la cosa è davvero incomprensibile: come è possibile che gli italiani, così solari, fantasiosi, artisti, intraprendenti, pieni di tanta umanità, si siano lasciati abbindolare da un solo uomo che si è rilevato un incolto, un sospettato di collusione con la mafia, un corruttore di partiti, finanzieri, magistrati, avvocati, uno che ha fatto entrare in parlamento il suo collegio di difesa, un bugiardo che ha negato di essere iscritto alla loggia P2 (soppressa per attività sovversive) e perciò condannato per falsa testimonianza, uno scampato ad altre condanne per prescrizione dei reati e per leggi fatte solo per sé stesso, uno spocchioso, un millantatore, un complessato al punto che ha bisogno di dirsi secondo solo a Napoleone e più sofferente di Gesù Cristo? Eppure è avvenuto. Gli italiani dimenticano, gli italiani sono creduloni, a boccaperta, non sanno, o fanno finta di non sapere, degli stravolgimenti che il nostro (l’Innominato) ha portato nelle nostre leggi, nella Costituzione, nell’economia, nell’università, nei beni culturali, nell’informazione, nel nostro vivere civile. I principi del bene e del male sono stati scardinati, quei principi che, ancor prima delle leggi, stanno nel nostro diritto naturale. Niente più è normale, non si sa più che cosa è vero e che cosa è falso, si dice e poi si smentisce, non si discute più, non si ragiona, in TV vince chi fa la voce più grossa e un confronto con l’avversario diventa un duello. Ciò fa sì che lo spettatore non comprende la realtà del nostro paese, né si fa un’idea di chi meglio lo possa rappresentare nelle istituzioni. Petrolini, a uno in platea che lo infastidiva ridendo arbitrariamente, replicò: “Non me la prendo con te, ma con quello che ti sta vicino che ancora non ti ha mollato un ceffone!”. Insomma, a chi molliamo un ceffone, all’Innominato, oppure a quei milioni di italiani che l’hanno votato? Democrazia? o piuttosto telecrazia? La televisione, ecco, questo vorace mostro dalle sette teste che si nutre delle nostre ore più belle al fine di convertire noi cittadini pensanti in stupidi consumatori. Fa rabbia sapere che i bambini sono i più esposti al totem televisivo, così che il loro cervello viene portato all’ammasso. Tutto cominciò con la televisione commerciale, negli anni ’80, quando, al fine di aumentare la maledetta audience, entrò in scena la volgarità, fatta non solo di mercificazione di corpi femminili, ma anche di film violenti e programmi di nessun valore, non dico artistico o educativo, ma neanche di intrattenimento, tutto catalogato ormai come spazzatura, di cui ci nutriamo ogni giorno, anche perché la sera siamo stanchi, fragili, senza difese, e siamo disposti a ingoiare tutto quel che ci propinano. Il guaio è stato che anche la televisione pubblica si è adeguata a quella commerciale e così adesso siamo al disastro: non siamo correttamente informati, ormai i telegiornali sono solo irritanti, non raccontano la realtà, soprattutto devono portare l’acqua al mulino del solo uomo, il padrone unico. In prima serata c’è raramente un programma, o un film, che possa solleticare il nostro piacere, la fantasia, l’immaginazione. Non parliamo degli sceneggiati TV dove la trama è quasi scontata, il che significa uccidere un’opera narrativa. E infine, cosa veramente la più grave, sembra quasi che, se non appari in televisione, non esisti. Il Truman show, appunto. Eppure l’avevamo visto, eravamo stati messi in guardia. Le elezioni del 9 aprile? Vorrei un paese normale, vorrei avversari da contestare e non da odiare, vorrei uscire da un incubo. Ma poi, più che brindare, bisognerà raccogliere i cocci. E in fretta.

Civita Castellana, 14 marzo 2006



1 commento:

ALFREDO ROMANO ha detto...
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