
Dedica del Nuto all'interno della mia copia della "Luna e i falò" di Cesare Pavese,
edita da Mondadori nel 1969, 1a edizione


Il Nuto (Pinolo Scaglione)

Le langhe, il Nuto. Viaggio intorno a Cesare Pavese.


Alla stazione Ghione è venuto a prendermi con l’auto del padre. Son passati degli anni, ma è ancora rimasto quel ragazzotto contadino di quand’era soldato, col suo piemontese ostinato che non si capiva un accidente specie quando imprecava per qualche ingiusta consegna. In caserma, sapendolo di Canelli, m’era premuto familiarizzare con lui e quale sorpresa fu per me scoprire che suo padre, che faceva il bottaio, era un amico del Nuto, il protagonista del romanzo La luna e i falò. E quando a Ghione raccontavo di Pavese e del Nuto come personaggi mitici tra le colline di Canelli e di Santo Stefano Belbo, lui m’interrompeva sorpreso: “Ma chi, il Pinolo? Quello che fa le bigonce? Ma sì, sta sulla strada dì Canelli per Santo Stefano e ci passo tutti i giorni”. Quei luoghi, quei personaggi che avevano per me i contorni del mito, erano per lui invece familiari: e io lo invidiavo per questo. Gli promisi così che un giorno sarei andato a trovarlo: avevo bisogno di sfatare quel mito; ma certi miti, lo so, non si sfatano, perché il mito, come insegna Pavese, è un aggancio alla vita.
Ghione è un ragazzo cresciuto nella bottega artigiana del padre che, proprio come il Nuto, da giovane, a tempo libero, era stato un musicante: “Sai, cosa vuoi, sono venuto su dal niente e ora ho messo su un piccolo capitale che mi rende. Da giovane suonavo la tromba ed ero molto bravo, più bravo del Nuto che in fondo, suonava ‘1 clarinetto solo nelle feste e paesane, mentre io davo veri e propri spettacoli. Ho ancora con me le foto e i giornali che parlano di me e della mia tromba”.
Probabilmente Pavese non avrebbe avuto proprio a cuore la presunzione del padre di Ghione, ma ce n’è tanta di gente così a Canelli che la musica ce l’ha nel sangue. E Ghione mi parla di bande e complessi perché qui quasi tutti hanno studiato musica fin da ragazzi e non è detto che certe serate in collina, nelle cascine, sull’aia, tra i vigneti in pendio, non si ripetano più con tanto vino, con tanto fumo, e musica, baccano e ragazze e l’alba che si aspetta sempre su queste colline dopo una notte di festa.

Ci sono tante botti nella bottega di Ghione: nuove alcune, già pronte, il legno ancora fresco stretto da cerchioni di ferro fiammante; altre ancora da finire con le doghe non ancora curvate nella classica forma di pancia. Messe in fila cosi mi riportano ad Alì Babà e i quaranta ladroni. Ghione mi spiega come si costruisce una botte: ci vuole molto pazienza ma più dell’affezione. Tutto il giorno, con l’uso dei cunei, si batte sui cerchioni che stringono le doghe e non è detto che talvolta non ci scappi un dito. Per costringere le doghe alla forma di pancia, si usa porre all’interno della botte un’apposita gabbia di ferro che racchiude un fuoco che deve essere costantemente attivato. È Ghione l’addetto al fuoco e così alla sera vien fuori che sembra uno spazzacamino.
“Ti piace, Ghione, questo lavoro?”.
“Diciamo che mi piace, forse altri non ne ho trovati. Certo lo faccio fin da ragazzo e mio padre, in fondo, non è poi tanto severo: si è più liberi e non è come stare dietro a un padrone”.
M’incuriosisce Ghione e penso che forse non abbia ancora una ragazza e glielo chiedo. Lui mi risponde che va ancora a ballare con gli amici e che ama il liscio anche se non è proprio il suo forte. La sua gente (e a lui piace molto frequentarla), invece, lo balla seriamente, a tempo, e si fanno pure delle gare, con personaggi curiosi, strani e di una simpatia unica. Uno di questi per esempio è uno spazzino, un tipo magro, sulla quarantina, pelato, senza denti, ma dicono si faccia le più belle ragazze del paese. Per questo è molto invidiato, ma tutti ammettono che nessuno sa fare bene il caschet come lui. Il padre dello spazzino, poi, era un vero artista, sapeva costruirti di tutto: dagli orologi, agli strumenti musicali. Bravo sì, ma s’accontentava di modesti compensi e così non aveva mai fatto fortuna. Ma anche il figlio non è da meno in quest’arte dell’arrangiarsi: non è raro infatti vederlo in giro a raccogliere cartone dopo otto ore del suo lavoro. Lo chiamano Balaiaco, ma non è per via che sa ballare.
Pinolo Scaglione, il Nuto, non è ancora arrivato. A metà strada tra Canelli e Santo Stefano Belbo, l’attendo seduto su di una panchina ai piedi di un vecchio tiglio che fa ombra su gran parte della bottega artigiana che “dà su uno stradone”, racconta Pavese nella Luna e i falò.
Star qui mi fa un certo effetto, mi procura emozioni che non saprei spiegare. Pavese vi è passato per trent’anni e mi pare di vederlo arrivare nella sua giacca consunta e con la pipa perennemente spenta, sedersi qui, su questa vecchia panchina a discorrere col Nuto, il Nuto saggio della valle del Belbo, il musicante delle allegre serate che innamorava di sé le ragazze del paese.
Sullo stradone corrono ora macchine assordanti e autocarri. Resta una vecchia bigoncia appoggiata su due cavalletti, ormai annerita dal tempo. È tutto rimasto com’era ai tempi di Cesare, mi ha assicurato ieri il Nuto, aggiungendo che, almeno fino alla sua morte, non verrà toccato niente e darà per questo nel suo testamento disposizioni precise.
Ha settantasei anni il Nuto, ormai vecchio e ingrassato. Ha perfino un paio d’occhiali che non gli nascondono però quegli occhi sornioni, da gatto, come li chiama Pavese. È un piacere sentirlo parlare, alla maniera del saggio, con un periodare minuto, cadenzato, non una parola superflua, arrabbiandosi perfino se l’interrompi, perché, dice, perderebbe il filo del discorso. L’impressione che ne ricavi è di una cultura non appresa sui libri ma dalla vita, le cui avventure sono quelle quotidiane, dove il dolore e la gioia si mescolano fino a diventare l’uno la condizione dell’altra.

Il Nuto l’ho incontrato ieri per la prima volta. Nella sua casa del Salto ci sono arrivato in bicicletta, una tipica del dopoguerra che mi ha prestato gelosamente il padre di Ghione. Non vi abita ma ci viene spesso, quasi a far rivivere luoghi e personaggi che appartengono ormai alla letteratura, nella quale per tutti lui è morto da tempo e non servono certo i tipi come me a liberarlo dal mito dove è stato relegato.
Mi ha fatto, a vederlo, quasi pena, dimenticato, a giudicare dall’indifferenza dei passanti che scorrono ignari sullo stradone ora asfaltato, davanti al Nuto, davanti a questa bottega che ha visto Pavese amare la vita, le lunghe scampagnate… S’allontanavano insieme la mattina per tornare sul tardi e mangiare con tanta fame: passeggiate tra i boschi di queste colline, fino a stancarsi.
La bottega del Nuto sembra ormai un vecchio cimelio. Il fratello, Candido, è morto proprio qualche mese fa. Candido costruiva tavolinetti intarsiati, mandolini, chitarre, violini: aveva la mano di un artista, afferma il Nuto con orgoglio, e questi strumenti non hanno un prezzo, perché non ha prezzo la fatica e la passione per creare queste cose. “Ero otto anni più grande di Cesare”, attacca il Nuto in tono così familiare. «Io gli ho insegnato a nuotare, andare a caccia di nidi, a giuocare, a correre nei boschi, gli raccontavo vecchie storie che a lui piacevano tanto e lui era lì ad ascoltarmi per delle ore, quasi beato. Ero un saltatore io, fin da ragazzo sono stato un selvaggio e facevo delle gare”.
Non è difficile scoprire come dietro i personaggi della Luna e i falò ci sia il Nuto: Valino, Cinto, Silvia, Irene, sono tutti realmente esistiti. Come egli stesso afferma, è stato lui a fornire a Pavese gli elementi per la definizione dei personaggi.
«Hai fatto bene, Pinolo, a lasciare Torino e tornartene a Santo Stefano», gli confidò Pavese «come avrei potuto scrivere i miei romanzi se tu fossi rimasto a Torino?»
Il Nuto per Pavese era l’infanzia, era la terra a cui era legato, era la gente delle colline con la sua saggezza popolare, era colui che conosceva i segreti della vita e a lui ci si poteva affidare con sicurezza. E proprio quando la vita sembrava sfumargli o aveva paura di perdersi in mezzo a gente che non capiva o che era legata a lui per degli interessi, visto che era uno scrittore affermato, allora era il momento che si legava di più al Nuto. Pavese in ogni modo ha sempre cercato un colloquio con la gente, che solo dopo la morte però ha potuto trovare. A quel tempo scriveva sull’Unità e su Rinascita del nuovo ruolo degli intellettuali in quella società nata dalla Resistenza. Parlava dell’artista non isolato che produce le sue opere scavando nel sociale l’individualità di un personaggio. In quanto a questo è stato coerente. L’accusa rivoltagli da Alberto Moravia di essere stato uno scrittore provinciale, si trasforma nella lode più degna, proprio per il merito che ha avuto di far assurgere la provincia, i personaggi e i luoghi più comuni agli onori della letteratura. Pavese ha scritto traendo dalla realtà e dalla realtà è scaturita la storia, la vita, le sofferenze antiche e attuali di una gente, quella delle Langhe, soprattutto contadina, e, come tale, fuori dalla cultura ufficiale. Una gente che Pavese ha riscattato, facendo trasparire una cultura ‘minore’ degna di essere capita da quella colta.
lo starei a sentirlo chissà per quanto. Nuto va a ruota libera, è un vulcano di parole, mi parla di tutto e non solo di Pavese. Non ho un registratore, prendo appunti, faccio fatica a fargli seguire l’ordine delle mie domande, che faccio pure brevi, ma sulle quali mi preme molto sentirlo raccontare.

«Dal 1948 veniva a trovare solo me ormai: gli ero l’unico amico rimasto. Mangiava sempre da me, ma non ci dormiva, non voleva, temeva di dar disturbo alla mia famiglia. La notte lui soffriva d’asma ed era spesso costretto ad alzarsi e aprire la finestra, altrimenti, diceva lui, si sentiva soffocare. Preferiva così andare in albergo, l’Albergo della Posta a Santo Stefano. Cesare era troppo buono e temeva sempre di recarci fastidio. Gli ultimi mesi, per dormire, era costretto a prendere una bustina di sonnifero, in seguito due; ormai aveva raggiunto l’assuefazione. Era sconsolato allora, sfiduciato di tutti».

«lo allora: Cesare, se essere comunista vuol dire essere come te, anch’io sono comunista! Però mi iscrissi ai Partito socialista. Sai, allora, iscriversi al Pci significava tribolare. Molti rischi ho sopportato durante la guerra dando ricovero a dei partigiani, e spesso sono stato sul punto di vedermi bruciare

«Vedi, Cesare però era un comunista particolare. Voglio dire, nella guerra di Resistenza lui non imbracciò il fucile per andare in montagna come gli altri. Io stesso gli sconsigliavo d’andarci, perché il fisico non glielo permetteva. Era gracile e malato d’asma. Ma soprattutto per un’altra cosa Cesare non andò in montagna: lui non era capace di uccidere neanche una mosca. Il sangue lo faceva rabbrividire, non era capace di sparare. Cesare, però, è stato un antifascista della prima ora e, se tutti fossero stati come lui, il fascismo oggi non sarebbe noto neppure di nome. Ci sono tanti cosiddetti democratici in giro oggi: molti sono dell’ultima ora!».
«Ma Cesare non poteva non scrivere: ce l’aveva nel sangue. Fu Paesi tuoi il suo primo romanzo e lo convinsi io a scriverlo, perché, fino ad allora, non faceva che portarmi tutti quei libri che lui traduceva dall’americano. Fu così che un giorno gli dissi: Cesare, senti, tutti questi libri che tu mi regali sono belli ma io voglio qualcosa di tuo. E lui: “Ma tu pensi che sia facile scrivere un libro?” E io: lo so che non è facile, ma io ti conosco e so che puoi e devi scriverlo».
«Poco tempo dopo si presentò infatti con Paesi tuoi. Ne aveva fatto stampare mille copie. Cento le aveva regalate agli amici, ma le altre rimasero invendute. Era mortificato per questo e un giorno, durante una delle solite passeggiate insieme su queste colline, notando che non era di buon umore gli chiesi: Cesare, scrivi tu una bella critica su Paesi tuoi e la firmo io, vedrai che qualcuno leggerà il tuo libro. Ma lui, indicandomi un’erba cattiva che gli era capitata sottomano, mi fece: “Piuttosto mangerei quest’erba invece d’umiliarmi così”. Si sentiva incompreso e ferito nel suo orgoglio e questo lo portò ad appartarsi e a rifiutare persino la compagnia degli amici».

«È in questi luoghi che Cesare ha vissuto la sua infanzia. Una volta finito il baliatico, ricordo che venne allattato da mia sorella Vittoria. Io ero otto anni più grande di lui e appena si fece ragazzo, aveva dieci anni, lo portavo con me tra queste colline del Salto, gli facevo da guida, l’addestravo alla caccia di nidi, di bisce, di uccelli. Gli ho insegnato pure a nuotare. Ma io ero un selvaggio, un saltatore da ragazzo, e Cesare era lì che pendeva dalle mie labbra, con tutte quelle storie che gli raccontavo. Rimaneva delle ore, qui, in bottega, a sentirmi parlare e a vedermi faticare. A Cesare io ho voluto sempre molto bene. E che dire poi del suo ultimo libro, La luna e i falò, le cui storie, i personaggi non sono inventati; sono veri, glieli ho descritti io e lui è stato bravo a farci un romanzo. Certo, non tutte le parole che mi stanno in bocca nel romanzo sono mie, ma questo è il mestiere di scrittore e nel libro spesso io pronuncio parole di Cesare e viceversa».

«Cesare quando mi vedeva era sempre molto felice. Ricordo che parlammo della casa che avrebbe voluto riacquistare: in tempi difficilissimi quella casa era stata venduta per sole duemila lire e riaverla per lui era diventato un chiodo fisso. Si era in una delle solite passeggiate e gli dissi: Cesare, vedo che ci terresti tanto a riavere la tua casa. E lui: “Ci terrei, non ci sono posti più belli al mondo”. Non preoccuparti, Cesare, gli risposi, mettendo insieme i tuoi e i miei risparmi, riusciremo a riavere quella casa. Sai bene che chi l’ha comprata non l’ha fatto per affezione, è stato un mercanteggiamento. Basteranno duemila lire in più e si riavrà quella casa.
«Ma lui: “Perché, tu credi, Pinolo, che io abbia dei risparmi?” Certo che lo credo, sei impiegato alla Einaudi e scrivi un libro all’anno!”. “Di Paesi tuoi”, riprese sconsolato, “non ho venduto una copia, ma tanto, vedrai che un giorno leggeranno i miei libri e avranno dei fastidi per capirli”».
«Ma Cesare ne era innamorato follemente, a tal punto che anch’io mi arresi e arrivai a condividere quel rapporto, anzi gli feci: Cesare, senti, io ho sempre parlato a vanvera, ma da quella sera che t’ho visto partire per Roma per la prima volta ed eri così triste, sai che ti dico? Sposa pure quella donna, con tutto quello che mi hai detto di lei, dove troverai un’altra così?
«E lui raggiante: “Andrò a Roma, nel mese entrante, per combinare il matrimonio, perché in questo momento è assente, è tornata in America, a Roma c’è rimasta la sorella”. E io: Cesare, voglio conoscere questa donna, tra tutte le belle che mi hai raccontato, deve essere una di quelle che io non ho mai visto. “Stai tranquillo”, mi fa, “appena posso la prendo e la porto a Torino. Lei vuole conoscere questi posti, ha letto La luna e i falò, debbo dirti che è l’unica donna che mi abbia veramente compreso”».
«Fu questo il nostro ultimo colloquio. Io purtroppo devo aggiungere che quell’attrice elogiava Cesare perché sperava di far successo in compagnia di uno scrittore ormai di fama (Pavese aveva appena ricevuto il premio Strega, n.d.r.). Ma Cesare era un credulone, pensava che tutti fossero trasparenti come lui e ha creduto pure in quella donna che se ne tornò in America lasciando detto alla sorella che non avrebbe mai sposato Cesare. Penso proprio che a quest’ultima disgrazia Cesare non resse».
Il Nuto non parla più. I suoi occhi, non più grandi, si socchiudono a un pianto interno ma visibile nelle sue ultime parole. Mi fissano i suoi occhi, mi implorano, quasi mi dicono “Basta ora, ti ho detto tutto, bello è il ricordo ma anche amaro”. Così, nella casa del Salto, grava ora uno strano silenzio, imbarazzante quasi, non s’ode più il ‘vulcano di parole’. Su entrambi pesa la medesima sensazione: Cesare, Cesare Pavese, il fumo della pipa, i primi libri con dedica all’amico Pinolo, la sua faccia scarna che sembra una civetta, quegli occhi buoni che un leggero paio di occhiali nascondono invano, Cesare Pavese era lì (Ora, a distanza di qualche tempo, mi è più chiaro quel silenzio: era proprio quel silenzio che si deve a un morto, un silenzio che era soprattutto rispetto). Dai vetri della finestra i contorni delle colline appaiono ancora netti, malgrado il tramonto s’appresta. La porta è semichiusa, è maggio, e giunge gradito quel profumo d’erba fresca che soffia dai prati sul far della sera. Come spinti dallo stesso pensiero, io e il Nuto siamo già sulla soglia. La vecchia bigoncia sospesa sul cavalletto, sul piccolo piazzale antistante lo stradone, mi dà quasi l’idea di un monumento. Ma qui su tutto aleggia il mito e a quest’ora anche le macchine non scorrono più. È Nuto a rompere il ghiaccio:

«E quando vai a casa e metti ordine ai tuoi appunti non scrivere delle panzane, eh?»
«Non preoccuparti, Nuto, non le scrivo e poi voglio bene a Pavese, lo stimo soprattutto come poeta e scrittore».
«Se lo merita!»
E salta fuori a questo punto la sua intolleranza verso quanti su Pavese hanno scritto senza averlo veramente capito. Il suo, però, è il risentimento di un padre che non gradisce che s’offenda la memoria di un figlio. Il discorso cade facilmente su Moravia: «Se venisse qui a parlarmi di Pavese, gli direi che è un birbaccione e che non ha capito niente!»
«Stammi bene, Nuto, ti auguro una vita lunghissima».
«Tanti auguri a te che sei giovane».
Mi voltavo così per andarmene: «Come ti chiami, a proposito?»
«Alfredo,
«Bene, me ne ricorderò, non è un nome difficile da ricordare».
Così ha raccolto un gesso e, su una tavola appoggiata alla parete, vi ha scritto il mio nome e indirizzo. Poi è sparito nella sua utilitaria, mentre io in bicicletta inforcavo la strada del ritorno verso Canelli. Appena mille metri e, per caso, l’ho intravisto in un campo arato ai piedi di una collina, che gesticolava con dei trattoristi gridando a gran voce. Toh, eccoti il Nuto, mi son detto, e chissà quanto darebbe Pavese, ora, per vederlo così. Malgrado l’età, è rimasto lo stesso della Luna e i falò: i suoi occhi sornioni, da gatto e sarebbe ancora capace di fare delle gare e con la nota del suo clarino ispirare tenerezza a qualche ragazza del luogo, di quelle che, quando vendemmiano, ti offrono un grappolo d’uva e si avrebbe voglia d’addentarlo in una sola volta.
(Pubblicato su IL PONTE, agosto-settembre 1991, nn. 8-9)
Sempre di Gaetano Pampallona:
Sono varie e suggestive le testimonianze di amici e di letterati sulla vita, tra città e campagna, di Pavese raccolte da Franco Vaccaneo nell'interessante opera "Sulle orme di Cesare Pavese", Edizioni Omega, 1999. Vale la pena riferire sull'intervento dello scrittore
dell'uomo indigente, cinicamente sfruttato e offeso.