sabato 28 novembre 2015

I SALENTINI A CIVITA CASTELLANA / RITORNO ALLA TENUTA TERRANO: LE FOTO DI IERI E DI OGGI.



  1. Nel 1965 la mia famiglia emigrò da Collemeto nel Salento a Civita Castellana per la coltivazione del tabacco. Si calcola che almeno cinque mila salentini a quel tempo siano emigrati nell’arco di 15 anni nel Viterbese. I primi due anni furono durissimi, l’alloggio cui ci aveva destinato il primo proprietario
    terriero era malsano, privo di servizi, praticamente una stalla.
    Dopo due anni ci trasferimmo nella Tenuta Terrano dove il nuovo
    proprietario ci fece alloggiare in una casa da cristiani. Nella Tenuta
    c’era un concentramento di almeno 500 salentini. Coltivammo
    tabacco per altri otto anni, fino al 1975, quando i miei genitori 
    decisero di tornare a Collemeto. Noi figli restammo perché nel 
    frattempo avevamo trovato un lavoro. Per tanti anni non sono 
    più passato dalla Tenuta Terrano e questo benché dalla mia 
    finestra scorgo ogni giorno in lontananza la torretta della villa 
    dell’allora proprietario terriero. Negli anni Sessanta ero munito 
    di un’irrisoria macchina fotografica in b/n grazie alla quale, però, 
    ritrassi i miei e lo scenario che si presentava alle loro spalle che 
    documenta la vita ordinaria nella Tenuta e alcune fasi della 
    lavorazione del tabacco. Ma ecco che uno di questi giorni, munito 
    di buona fotocamera stavolta, mi sono messo in cammino per 
    arrivare alla tenuta. Il cuore mi batteva forte quando ho fatto 
    ingresso nel viale che portava ai tanti caseggiati, compreso 
    il mio: vi alloggiavano in ordine sparso tante famiglie salentine 
    e alcune calabresi. Dall’ingresso della Tenuta la mia vecchia 
    casa distava un chilometro. Non ero sicuro di riuscire a dirigermi 
    verso il mio casolare: ero tentato di tornare indietro tale era 
    l’emozione che mi assaliva. E sì, perché era come tornare sul 
    luogo della triste avventura dei miei, come essermi messo in 
    viaggio per trovare mio padre, mia madre, i miei fratellini. 
    I casolari che avvistavo d’intorno ormai tutti abbandonati,
     né si vedeva anima viva all’orizzonte; un forte vento invece 
    che ululava quale colonna sonora col sole che dardeggiava a 
    picco. E quando sono arrivato alla casa dove abbiamo abitato
     e patito per tanti anni, nel silenzio che regnava d’intorno sono 
    apparsi tutti i miei fantasmi. Sì, avevo bisogno di sfatare quel 
    buio oltre la siepe. Ho ripreso quindi con la fotocamera gli stessi 
    scenari di allora, poi ho sostato per un’ora circa davanti al mio 
    casolare in un silenzio irreale immaginandomi visi e situazioni 
    così remote. Intorno non più la terra battuta da uomini e mezzi, 
    ma l’erba spontanea che dava l’idea del triste abbandono. Ho 
    desiderato, per assurdo, di ritornare ad abitare nel mio casolare, 
    quasi a farlo rivivere in una seconda puntata in compagnia di volti
    e scenari di un tempo. Ah, la nostalgia! E sì, perché non si stava da re, 
    ma c’era un mondo semplice e vero che era la vita, quella che, a dispetto 
    del falso progresso, valeva la pena di vivere. Con la mente carica di 
    mille visioni e pensieri, mi sono incamminato poi sulla via del ritorno e, 
    per l’ultima volta, mi sono voltato e m’è venuto spontaneo fare un saluto, 
    quasi che in fondo, laggiù, mia madre stesse sventolando un fazzoletto. 
    Tornato a casa, ho confrontato le nuove foto a colori della Tenuta Terrano 
    con quelle in bianco e nero scattate negli anni ’60-’70. E allora m’è venuta 
    un’idea, quella di porre a confronto gli stessi scenari corredati da didascalie 
    che narrano una storia. Si tratta di un documento fotografico sull’emigrazione 
    dei salentini a Civita Castellana anche attraverso la storia della mia famiglia. 
    Per non dimenticare un periodo storico che appartiene non solo a Civita 
    Castellana, ma a tutto il Salento e l’Italia tutta.

    Ed ecco più di 60 documenti fotografici con le didascalie che narran
    un paesaggio e una storia.

    APRILE 2012. Entro camminando nel viale d'entrata della Tenuta Terrano, Azienda De Fenu, Via Terrano n. 31, distante cinque km da Civita Castellana, dove la mia famiglia ha vissuto otto anni per la raccolta del tabacco, dal 1967 al 1975.


    APRILE 2012. A sinistra uno dei tanti caseggiati ormai abbandonati e senza vita che si vedono lungo la strada bianca prima di arrivare al mio vecchio casolare.

      
    APRILE 2012. Percorro la strada bianca che porta al mio caseggiato, detto San Massimo, che s'intravede appena in fondo. Mille volte da qui ho percorso a piedi i cinque km per recarmi a Civita Castellana, e altrettanti per tornare, non avendo neanche uno straccio di bicicletta.

      
    APRILE 2012.  Altri casolari abbandonati che si vedono percorrendo la strada bianca che porta al mio.


    APRILE 2012. S'intravede meglio il mio caseggiato là in fondo. La tentazione è quella di scappare, ma una brezza di vento addolcisce le mie emozioni. 

    APRILE 2012. Avanzo ancora: a sinistra scorgo il casale dove abitava Domenico Amato e la moglie Mafalda, due contadini calabresi. Domenico, il mio amico illetterato e il simpatico filosofo della tenuta. Lo chiamavamo capitano per il vezzo di coprirsi la testa col suo vecchio berretto militare, un residuo della seconda guerra mondiale cui aveva partecipato. Al berretto aveva aggiunto una sottile striscia rossa per dichiarare al mondo la sua fede comunista. Era di Carfizi, colonia albanese, e aveva partecipato ai fatti di Melissa per l'occupazione delle terre nel 1949. Una donna, Angelina Alfano, e due uomini, Giovanni Zito e Francesco Nigro, furono colpiti mortalmente alla schiena. 
      
    APRILE 2012. Sono quasi arrivato. Sulla destra mi appare il capannone dove s'infilzava il tabacco e si stagionavano li chiuppi appesi alla volta del soffitto.



      APRILE 2012. Ed ecco la nostra casa colonica nella Tenuta Terrano a Civita   
    Castellana in stato di abbandono, intorno tutte erbacce. Si scorge ancora un cavo 
    pendulo della nostra vecchia TV in b/n. Quel rotondo grigio sulla parete di destra corrisponde al caminetto interno che presenziava in cucina. A furia di scaldarci con la legna, dopo alcuni anni il muro si sgretolò fino ad aprirsi, sicché mio padre dovette ricostruire il muro lasciandovi all’esterno il colore della malta usata il cui colore ancora resiste dopo tanti anni. Non si vedono più gli infissi delle finestre, ché il proprietario li ha nascosti con dei pannelli grigi per proteggerli dalle intemperie.

    OGGI 2012 E IERI 1967: LO STESSO SCENARIO. Era una "bifamiliare" dove alloggiavano due famiglie: la mia sul davanti, e dietro quella dei Mariano. In questo casolare abbiamo vissuto per otto anni. Precedentemente abitavamo nella tenuta di un altro proprietario terriero dove l’alloggio era proprio malsano e buio. Capitò un giorno che, mentre si era intenti a raccogliere tabacco su un pezzo di terra che fiancheggiava la strada, si trovò a passare un proprietario terriero la cui tenuta stava alcuni chilometri più avanti, verso Fabrica di Roma: era De Fenu. Rimase colpito dalla nostra destrezza nel raccogliere tabacco e si presentò. Ci promise che se fossimo diventati suoi coltivatori avrebbe costruito per noi una casa colonica nuova con acqua e servizi. E così fu. Le porte erano di ferro e i muri sottili, per cui l’inverno, con tutto che c’era il caminetto, era terribile lo stesso, ma almeno c’erano i servizi essenziali, perfino la doccia. Lasciammo la casa nel 1975: noi figli avevamo ormai un lavoro e i miei genitori ritornarono a Collemeto. Ma con la legge sull’abolizione dei contratti di mezzadria e di compartecipazione, la tenuta si svuotò, visto che al proprietario non conveniva più far coltivare tabacco sulla propria terra.

     
    OGGI 2012 E IERI 1968: LO STESSO SCENARIOIo, Alfredo, in canottiera a 17 anni. Il primo ricordo (la cosa mi fa ancora tenerezza) è quello di certe mattine quando ci svegliava la pioggia. Eravamo talmente ragazzi che per noi era una festa: e già, perché quella mattina non si sarebbe raccolto tabacco perché bagnato. Un dono poter dormire qualche ora in più. Eravamo proprio incoscienti noi ragazzi, ché in testa ai nostri desideri c’era sempre la pioggia a ogni risveglio. E un anno venne la grandine che spazzò via tutto il tabacco alto e rigoglioso. Mio padre e mia madre piangevano, noi ragazzi, invece, di nascosto a fregarci le mani ignari e felici. 

          
    OGGI 2012 E IERI 1968: LO STESSO SCENARIOIntorno alla Tenuta di Terrano c’è un paesaggio di forre, di torrenti e di fitta vegetazione spontanea, un paradiso terrestre ancora intatto. Ogni tanto mi recavo in queste forre per leggere, scrivere, oppure in cerca di solitudine e di ispirazioni varie. Ma andavo anche a pesca di gamberi di fiume catturandoli con le sole mani camminando nel guado contro corrente.
    OGGI 2012 E IERI 1968: LO STESSO SCENARIOMia madre Lucia che versa il granturco alle sue galline. Una delle più belle eredità che ho avuto da mia madre è stata la cucina. Era una grande cuoca e il parroco di Collemeto chiamava sempre lei quando arrivava a Collemeto il vescovo in visita pastorale. E doveva preparargli un pranzo a regola d’arte. 

      
    OGGI 2012 E IERI 1968: LO STESSO SCENARIOSono il primo da sinistra con i miei fratelli Aldo, Angelo ed Eugenio. Eccetto Aldo, che tornò a Collemeto negli anni ‘80 per fare l’ispettore di polizia a Galatina, gli altri sono rimasti a Civita Castellana: io bibliotecario, Angelo ed Eugenio ceramisti. Ci vogliamo bene ed è sempre un piacere ritrovarci intorno a una tavolata e tornare bambini nella lingua, nelle storie, nelle musiche, nei ricordi belli e tristi.

      


    OGGI 2012 E IERI 1968: LO STESSO SCENARIOArrivai a Civita Castellana da seminarista dopo aver preso la licenza ginnasiale (allora c’erano gli esami in V ginnasio). Poiché mancavano solo tre anni alla maturità, fui ‘graziato’, mi si concesse di continuare gli studi. Ma per quattro mesi all’anno (da giugno a settembre) e per dieci anni consecutivi, non sono stato risparmiato nel lavoro del tabacco. Ed è stato bene così. Anche quando a 21 anni ho iniziato a lavorare in biblioteca non ero esentato dalla fatica. La mia prima vacanza l’ho conosciuta a 25 anni, dopo che i miei smisero di fare tabacco e se ne tornarono al paese. Rispetto ai miei fratelli, in ogni caso, riconosco di essere stato più fortunato. Ma un prezzo l’ho pagato anch’io e, a dirla tutta, l’ho pagato volentieri. 

      
    OGGI 2012 E IERI 1968: LO STESSO SCENARIOMio fratello Aldo, il secondo. Quando siamo arrivati a Civita Castellana aveva appena preso la licenza media. Lui avrebbe voluto continuare, ma non gli fu possibile. Ancora oggi ha un grande rimpianto, anche perché a scuola lui era il primo della classe. A 18 anni dovette andare coi muratori, ma la mattina gli toccava alzarsi all’alba lo stesso per la raccolta del tabacco. Insomma, a sera, di giornate ne aveva fatte due. E così fece domanda per entrare in polizia, e, brillante com’era, a 25 anni era già maresciallo; da lì a qualche anno ispettore. Angelo ed Eugenio, invece, rispettivamente terzo e quarto, abbandonarono la scuola durante l’anno scolastico quando i miei partirono per Civita Castellana.

     

    OGGI 2012 E IERI 1968: LO STESSO SCENARIOLa mia famiglia. In piedi: mamma Lucia, papà Giovanni, Angelo, Aldo; inginocchiati: io Alfredo ed Eugenio. Si raccoglieva la mattina dalle 4 alle 10, poi la fatica di riportar fuori i pesanti telai del tabacco chiusi nel capannone la sera prima, quindi s'iniziava l'infilzatura delle foglie che si protraeva fino alle 18 quando si tornava a raccogliere tabacco fino al tramonto. La mattina presto si andava sul campo con un solo un caffè all’alba. Si tornava a casa con una fame da lupi. Quelle fette di pane leggermente bagnate e condite da mia madre con olio, pomodoro, origano, sale e spicchi di cipolla, erano la nostra colazione. E anche se oggi sono passato a colazioni più ‘civili’, il sapore di quel pane e di quel pomodoro non è stato ancora superato.
    OGGI 2012 E IERI 1968: LO STESSO SCENARIOIn piedi: io Alfredo, segue mio cugino Cosimo seminarista (oggi parroco di Collemeto), mia madre Lucia e mio fratello Aldo; in basso, papà Giovanni con i miei fratelli Eugenio e Angelo.



    OGGI 2012 E IERI 1968: LO STESSO SCENARIOMia madre Lucia si vedeva come spersa lassù nella Tenuta Terrano e diceva sempre: «Ho una casa tanto bella e comoda al mio paese, prima stavo in mezzo alla gente e sono venuta qui a soffrire di solitudine.»

      


    OGGI 2012 E IERI 1968: LO STESSO SCENARIOAvevo 18 anni nella foto. Alzarsi ogni mattina prima dell’alba era dura. Mio padre si svegliava ch’era ancora buio e si recava a perlustrare la striscia di terra per la raccolta, quella con le foglie di tabacco più mature. La pianta veniva sfogliata dal basso in alto, per ogni pianta si sfogliavano sei-sette foglie, tutto il campo veniva mediamente passato sei volte. Le foglie, a seconda della loro altezza, avevano un nome: frunzone quelle più basse, poi, salendo, quartaterzasecondaprima e primiceddha. Le prime raccolte ci costringevano a stare più chini. Per sopportare il piegamento s’appoggiava l’avambraccio sinistro sul ginocchio, che così reggeva il peso del corpo. Nel punto d’appoggio si formava un vero e proprio callo. Con l’ultima raccolta, prima e primiceddha, finalmente si poteva stare in piedi e sembrava quasi una passeggiata; così veniva anche più facile parlare e cantare, avendo come colonna sonora il monotono ticchettio delle foglie sfrondate.


    OGGI 2012 E IERI 1968: LO STESSO SCENARIOI miei genitori in posa sulla strada bianca che fiancheggiava la nostra casa. Torno a Collemeto una volta all'anno anche per i miei genitori che non ci sono più e che stanno lì al cimitero uno accanto all’altro, immobili, che ti fissano dai riquadri e pare che mi dicano ogni volta: Eh, fìju, sta tte rretiri? Te nde vai sempre ramingu e ne lassasti cquai suli suli.



    OGGI 2012 E IERI 1969: LO STESSO SCENARIOMia madre Lucia intenta a cucire e a rattoppare i panni davanti alla strada bianca nei pressi della casa colonica. Era bravissima a cucire mia madre. Da ritagli di stoffe o in disuso, lei ti confezionava pantaloni, camicie, mutande, maglie di lana (quelle che non sopportavi). Sfilava vecchi maglioni di lana e con un gioco di ferri faceva nascere coperte per l’inverno, oppure calzettoni di lana con i legacci, prese per la cucina, mantelli da donna per l’inverno. Con la mia tonaca nera da seminarista si cucì un vestito per portare il lutto alla morte di suo padre Pasqualino. Con le mie camicie senza colletto, sempre da seminarista, vennero fuori mutande e strofinacci. Ma era brava anche con l’uncinetto, il ricamo, il tombolo. A Collemeto aveva una macchina da cucire, che però non potette portarsi a Civita Castellana. E ne soffriva per questo. Nel mio guardaroba conservo ancora dei maglioni di lana pungenti, calzettoni di lana, prese per la cucina. Per non dire alcune bambole alle quali confezionava dei vestitini in miniatura.




    OGGI 2012 E IERI 1970: LO STESSO SCENARIOA destra mia madre Lucia scoperta a pulire uno sgombro. A sinistra la casa di Terrano fiancheggiata dalla strada bianca che portava alla villa del proprietario. A destra e a sinistra c’erano le coltivazioni di tabacco. Questo luogo, dove ho trascorso tanti anni con i miei genitori e i miei fratelli, mi procura la stessa suggestione di trovarmi davanti a un pezzo di Collemeto che si è trasferito a Civita Castellana. Qui, oltre ai miei, vivevano altri parenti e tante famiglie provenienti da paesi salentini diversi. Un Salento in miniatura insomma. 




    OGGI 2012 E IERI 1970: LO STESSO SCENARIOMio fratello Eugenio, detto lu cacanitu perché l’ultimo nato.



    OGGI 2012 E IERI 1970: LO STESSO SCENARIOSosto davanti al capannone del tabacco e ho per le mani due pollastrelle. Di sicuro era passato un venditore ambulante di pollame vivo e mia madre mi aveva incaricato di chiuderle nel pollaio.



    OGGI 2012 E IERI 1972: LO STESSO SCENARIOA destra il capannone con i telai del tabacco appoggiati alla parete. Mia madre Lucia che usciva dal pollaio per rientrare a casa. Per quella storia del gallo di don Silvano, consiglio di assistere al video Leccesi c’era una volta / Il gallo di don Silvano  tratto dal blog Spigolature Salentine.



    OGGI 2012 E IERI 1972: LO STESSO SCENARIOMio fratello Eugenio scherza davanti casa con mio cugino Antonio Mariano, che è stato mio compagno di scuola alle elementari. Alle loro spalle il magazzino e il pollaio. D’inverno, quando non c’era la pressione del tabacco, la domenica pomeriggio noi ragazzi organizzavamo in casa delle feste da ballo con dei dischi per ballare lo shake o i lenti degli anni Sessanta, detti ‘balli sul mattone’. Arrivavano anche le ragazze, ma eravamo tutti al di sotto dei 20 anni. A Terrano c'erano circa 50 famiglie circa, per cui di ragazzi ce n’erano tanti. D’estate, la domenica pomeriggio, si puntava anche al lago di Trevignano; chi non disponeva di un motorino s’accontentava delle acque dei vari torrenti che scorrevano sotto i fossi (le forre) nei punti dove la corrente si radunava in piccoli bacini. Si provavano anche i tuffi, come d’abitudine dagli scogli del nostro mare giù nel Salento, ma, per via del fondale basso, non mancavano le capocciate contro la sabbia… Me ne ricordo una! Beh, c’era anche una buona dose d’incoscienza. Si stava anche dietro alle ragazze: civitoniche o salentine non faceva differenza. Allora era di moda lo struscio in via Roma. Ricordo che alle otto di sera improvvisamente le vie si svuotavano: era ora di cena e i civitonici rientravano tutti a casa. I primi tempi, questa cosa che i civitonici scomparivano tutti insieme alle otto di sera era una vera stranezza per noi salentini.

    OGGI 2012 E IERI 1973: LO STESSO SCENARIO. La finestra che corrispondeva alla cameretta in cui dormivamo noi quattro fratelli. Da notare i telai ripiegati e accatastati, le bombole del gas e il carrello con cui si trasportava il tabacco raccolto nel campo che veniva stretto in una spaziosa vecchia coperta detta manta. Sullo sfondo il casale più vecchio del caseggiato San Massimo.

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    OGGI 2012 E IERI 1973: LO STESSO SCENARIOLa finestra di sinistra era la cameretta dei fratelli Mariano, quella di destra dei fratelli Romano.


    OGGI 2012 E IERI 1974: LO STESSO SCENARIOIo e mia madre in un momento di gioia e di tenerezza.

     
    OGGI 2012 E IERI 1974: LO STESSO SCENARIOIo e mia madre... 




    OGGI 2012 E IERI 1974: LO STESSO SCENARIO.
    Nel giardino di papà
    sogno dei copiosi frutti
    il tuo amor ritrovato
    che rimpianto mamma
    parole ci insegnasti
    più grandi di te
    gesti e pensieri
    donare senza pretese
    soffrire senza mai dire
    domani fra le tue albe
    svegli di già
    le belle tue albe
    che più non sanno
    di cupi tramonti.

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    OGGI 2012 E IERI 1975: LO STESSO SCENARIO. Mia madre che lava i panni davanti casa. Nel periodo della lavorazione del tabacco c’era soltanto la domenica pomeriggio per qualche svago, ma solo per gli uomini. Le donne no, le nostre mamme no. Le mamme approfittavano della domenica pomeriggio, quando tutti gli uomini erano usciti, per lavare la biancheria di una settimana, specie gli indumenti da lavoro sporchi del grasso del tabacco, un grasso maledetto che ti impregnava mani e indumenti. Era un super lavoro casalingo. Mia madre negli anni ha rimarcato sempre la solitudine di quei pomeriggi domenicali. Le donne perciò erano quelle che più pativano la fatica e l’isolamento. Gli uomini, per lo meno, i nostri padri, si recavano a Civita a piedi e passavano di osteria in osteria a farsi un bicchiere, giocare a carte, oppure puntavano sul Bar Sangallo che era il ritrovo dei salentini. Ritornavano a casa che era già buio ed erano sempre un po’ alticci… ma quei cinque chilometri a piedi li conoscevano a memoria ormai.


    OGGI 2012 E IERI 1975: LO STESSO SCENARIOCon mia madre Lucia vicini al lavatoio dove per tanti anni si è spezzata la schiena per lavare i panni di tutti noi. 


    OGGI 2012 E IERI 1975: LO STESSO SCENARIOUltimo anno di tabacco. Nella foto, mio padre Giovanni e mia madre Lucia davanti al capannone del tabacco; dietro, la mia 500 Fiat che poi finì a Collemeto. I miei genitori sono rimasti in questo luogo fino a quando io e i miei fratelli siamo diventati economicamente autonomi. Sono stato io stesso anzi a incoraggiarli a tornare al paese. «È tempo che torniate, che ci fate qui? Giù avete un pezzo di terra, una bella casa, c’è gente che parla come voi…». Sono tornati e hanno vissuto più da ‘cristiani’ gli anni che gli rimanevano da vivere. Ma quante lettere ci siamo scritti e quante telefonate. Spesso tornavo giù a sorpresa, anche dopo un anno. Erano emozioni, era festa, irripetibile la gioia.



    OGGI 2012 E IERI 1975: LO STESSO SCENARIO. La mia 500 di seconda mano. Sono in macchina e metto in moto: direzione Civita Castellana per raggiungere la biblioteca dove lavoravo. Ma c’era sempre qualcuno cui dare un passaggioEro uno dei pochi a possedere un’auto. Così anche chi doveva partorire d’urgenza si rivolgeva a me per correre al pronto soccorso. Mi bussavano anche di notte, un vero servizio d’ambulanza! Bastava poi mettere l’auto in moto che in tanti mi s’affollavano intorno per le ordinazioni: sale, zucchero, pasta, sigarette… perfino la posta. Le lettere arrivavano tutte a Piazza di Massa n. 52 presso il negozio di generi alimentari Becchetti, allora il primo entrando a Civita da via Terrano. La maggior parte delle lettere erano quelle d’amore destinate alle ragazze i cui fidanzati erano rimasti giù nel Salento oppure emigrati in Germania o in Svizzera. Quando ritornavo a Terrano con la spesa fatta e la posta, era tutto un corrermi incontro. Non dico la gioia delle ragazze per una lettera pervenuta o la delusione quando l’attesa era stata vana: roba che mi sentivo quasi colpevole della manifesta tristezza sul volto delle morose.


    OGGI 2012 E IERI 1975: LO STESSO SCENARIONella foto di destra mio padre Giovanni e sua cugina Felicetta Romano in un campo di burley. Fu l’ultimo anno di coltivazione del tabacco. Il tabacco, in verità, non ha arricchito mai nessuno  a Civita Castellana, giusto la speranza di un avvenire per i figli che restavano. 
    Fu gente di Collemeto emigrata a Civita Castellana alcuni anni prima a capacitare mia madre a partire. Mio padre invece era restio. E non gli si poteva dare torto, visto che emigrare a 52 anni, quanti ne aveva allora, non era cosa semplice. La verità è che papà da qualche tempo aveva perso il lavoro (commerciava in tufi da costruzione) e a casa si attraversava un momento difficile. Perciò Civita Castellana apparve come una soluzione.


    APRILE 2012. Un lato del vecchio caseggiato S. Massimo che dà sulla strada bianca. E’ visibile ancora la targa.


    APRILE 2012. Al di là dello strada bianca c'era l'orto di mio padre e il terreno per la preparazione dei semenzai del tabacco.


    APRILE 2012. La campagna intorno dove prima si coltivava tabacco.


    APRILE 2012. La campagna intorno dove prima si coltivava tabacco.

      
    APRILE 2012. La strada bianca in direzione Civita Castellana nel tratto in cui fiancheggiava la mia casa colonica. In questo punto mia madre s'affacciava sempre per un mio ritorno. E, quando accadeva, era un correre correre.


    APRILE 2012. Mi sono incamminato sulla via del ritorno. Mi volto per scattare l'ultima foto a quello che per me è un luogo dell’anima ormai. 

    FINE


    I COMMENTI DEI LETTORI






  2. Mi complimento per l’eccezionale perizia di Alfredo nell’impostare graficamente pagine e immagini al pari delle riviste culturali e dei volumi scientifici più pregiati.
    Perchè ci vuole capacità per far rivivere anche al lettore più distratto il proprio viaggio. Alfredo aiuta la nostra immaginazione prestandoci la sua, quella supportata da vecchie fotografie scaltre, quasi consapevoli della funzione che in futuro avrebbero avuto: materializzare la memoria.
    Quella di Romano non è una memoria qualsiasi, ma una memoria storica al pari di quella che nuota fra le pagine dei testi storici ufficiali. La mia mente vola d’istinto alle splendide e tristi immagini dell’emigrazione del popolo italiano verso l’America, alle vicende drammatiche degli Italiani in Crimea, dei deportati di ogni tempo, e si perde nei reportage fotografici dei casermoni di Aushwitz. Già, quei fabbricati austeri, quelle casupole documentate tra il 1968- ’75 e oggi da Alfredo mi iniettano una sensazione di solitudine, di abbandono, di confinamento. Certo, a Civita Castellana non c’era prigionia se non nel cuore, nè vessazioni crudeli se non nella diffidenza e nel disprezzo della gente del posto verso gli intrusi salentini o nello sfruttamento da parte dei proprietari terrieri di questa mano d’opera bisognosa e disperata. Ma c’era dolore e lo si legge a chiare lettere nelle parole e nei ricordi dell’autore, in quelle emozioni struggenti, nel rimpianto della vita di allora, vita semplice, ma solo attraverso gli occhi dell’adolescente Alfredo e non dell’uomo. L’uomo, infatti, rimpiange i tempi della famiglia unita, degli affetti più cari ancora in vita ad attendere il suo ritorno sulla strada bianca o a svegliarlo all’alba per anticipare i compaesani nella raccolta del tabacco, ma non può accettare l’ingiustizia di una vita da reclusi nè di una madre malata di nostalgia. L’uomo Alfredo sente la mancanza della spensieratezza dei suoi diciott’anni, quando ogni sacrificio non conosceva strade traverse o scorciatoie e quando la famiglia e il suo benessere occupavano ogni settimana di tutti quegli otto anni il primo posto in classifica. L’amore vince sempre, cambia sempre, cresce sempre.
    Alfredo Romano dimostra con la propria vita e il proprio passato che l’amore è l’unica motivazione valida per accettare rinunce, pesi e sofferenze, per trovare il bello anche nel brutto e l’accettabile perfino nell’impossibile. Quando oggi il nostro scrittore si volta indietro a lanciare l’ultimo sguardo lucido a Terrano e al suo passato, infinita è la dolcezza che lascia e si riprende da quelle coccole materne rimaste a vagare fra le pietre del casolare antico, dalle immagini rassicuranti dei suoi cari, presenze poste da Dio a segnargli la via che l’ha portato a noi oggi e a se stesso in ogni attimo della sua vita.
    Credo fermamente che la testimonianza di Alfredo Romano, come quella di tutti coloro che hanno messo a disposizione di tutti i ricordi e le esperienze vissute, possa essere annoverata come Patrimonio dell’Umanità e fiore all’occhiello della cultura salentina perchè non esiste pietra o mattone che non racconti una storia nè vita che non lasci un insegnamento.
    Quanto sarebbe bello e giusto osservare, a questo punto, un minuto di silenzio per i nostri predecessori coraggiosi! Facciamolo per onorare i Romano e tutte le famiglie di nostri conterranei e connazionali che hanno sbancato montagne per lasciare a noi una strada più larga e un cammino più facile. Facciamo in modo che non sia stato un sacrificio inutile!
















  3. Alfredo Romano scrive:
    Mi chiedo a volte: ma come faremmo noi spigolatori senza Raffaella Verdesca? Devo ammettere che i suoi commenti hanno il pregio del tocco magico non dissimile da quello di un grande chef che, con un’ultima spolverata geniale, rifinisce un piatto che appaga non solo il palato, ma anche il naso e la vista. Raffaella insomma ce l’ha mandata qualche angelo buono per dispensare grazie a noi poveri mortali. Lei stessa è un dono e perciò guai a chi ce la tocca!


  4. Emilie Journo scrive:
    j adore

  5. Si, sono emozioni forti che anch’io ho provato quando sono tornato in Vico Trieste a Polistena, dopo tantissimi anni, a vedere la casa dove avevo abitato da piccolo per alcuni anni prima di essere ritornato a Reggio Calabria, mia città natale. Mio padre era invece salentino di Galatina (vicino casa tua a Collemeto quindi). L’emozione che si prova è fortissima e le lacrime sincere. Ma chi può capirci? Solo quelli come noi che vanno via dalla propria terra (io sono andato via per spirito di avventura) e dopo, col passar degli anni, li assale forte il desiderio di tornare indietro. Siamo uguali, Alfredo, le nostre emozioni sono quelle delle persone sensibili ed io ti ammiro.